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A proposito dei trattori

A Proposito dei trattori

con Armando Sarti

Le proteste delle categorie che producono il cibo devono sempre essere ascoltate e attentamente considerate.

Massimo rispetto per chi lavora la terra con passione e alleva animali con rispetto.

I margini di guadagno per gli agricoltori e gli allevatori sono spesso davvero esigui e inaccettabili, soprattutto se si pensa al divario inaccettabile tra quanto spetta ai produttori e quanto poi costa ai consumatori,
dopo tutti gli intermediari dello stoccaggio, trasporto, distribuzione, imballo e consegna ai rivenditori.

Una cosa però non riesco a comprendere.

Com’è che invece di protestare per un sistema di produzione e distribuzione dei prodotti agricoli e di allevamento inadeguati si chiede a gran voce da parte degli agricoltori di bloccare o ritardare, pare con successo già sancito dall’Europa, la riduzione dell’uso dei pesticidi che la Commissione stava finalmente pianificando?

Non è proprio un interesse specifico degli agricoltori e allevatori mantenere un terreno di produzione fertile e sano oltre che preservare sé stessi dai rischi dell’uso esteso dei pesticidi?

Certo la cosiddetta transizione ecologica comporta costi consistenti, ma dovrebbe essere considerata una priorità assoluta sia da parte dei governanti che da parte dei produttori.

E’ noto che ogni stato europeo sovvenziona l’agricoltura ed è proprio alle forme sostenibili di coltivazione e allevamento che dovrebbero essere assegnati gli incentivi in modo prioritario, tanto più quanto più si persegue la produzione biologica, più sana per tutti e molto più sostenibile per l’ambiente.

Certamente servono risorse pubbliche per sostenere lo sforzo produttivo e l’adeguamento necessario per un’agricoltura sana e rigenerativa, ma gli stessi agricoltori e allevatori potrebbero contribuire con pratiche associative sempre più estese, in modo da rivendicare e imporre una giusta retribuzione dei prodotti all’origine, acquisire così più forza contrattuale, anche per arginare la burocrazia asfissiante che logora soprattutto tanti piccoli onesti produttori.

Per questa tematica dell’alimentazione del terzo millennio è bene che nessuno si senta assolto a priori. Noi consumatori abbiamo il potere di scegliere cosa comprare e riorientare così il consumo e quindi la produzione di cibo sano e non dannoso considerando che la qualità ha un costo, sostenibile per tanti solo se si risparmia per altre voci meno cruciali del bilancio economico personale e familiare.

Armando Sarti, Medico

Casa dolce Casa

Casa dolce Casa

con Egidio Raimondi

Cosa succede alle case degli italiani con la nuova direttiva Europea sulle case green?

Il 14 marzo scorso il Parlamento Europeo ha approvato la revisione della vigente Direttiva Europea sulla prestazione energetica degli edifici, la EPBD 2010/31 UE.

Pur trattandosi di una normale evoluzione nell’alveo di un percorso iniziato da decenni, frutto di una serie di azioni coerenti e coordinate, questa volta il legislatore ha impresso una forte accelerazione e posto obiettivi molto ambiziosi e impegnativi, che rischiano di mettere a dura prova il sistema paese Italia e stanno suscitando notevole preoccupazione a tutti i livelli, da quelli istituzionali fino ai singoli cittadini. Il provvedimento impone agli Stati membri di adeguare il patrimonio edilizio, esistente e di futura costruzione, a standard di prestazione molto elevati, per giungere alla decarbonizzazione dell’intero sistema entro il 2050, alla luce della situazione geopolitica e climatica in cui ci troviamo. Secondo il testo approvato, dopo una serie di modifiche ed emendamenti, gli edifici residenziali esistenti dovranno raggiungere almeno la classe energetica E nel 2030 e almeno la classe D nel 2033. Gli edifici residenziali di nuova realizzazione dovranno essere a zero emissioni già dal 2028 e adottare tecnologie di produzione di energia dal sole. Gli edifici esistenti dovranno adottare tecnologie solari dal 2032, ove tecnicamente possibile. Gli edifici non residenziali e gli edifici pubblici hanno altri limiti, più stringenti, che anticipano gli obiettivi di prestazione appena enunciati per gli edifici residenziali di 2 o tre anni. Le reazioni dell’Italia a tutto questo sono state del tutto inadeguate e hanno mostrato la atavica mancanza di consapevolezza del problema che il legislatore europeo cerca di affrontare, sia da parte della politica che da parte del cittadino.
I titoli dei giornali e le dichiarazioni sui media si sono concentrate sulla visione di una “dittatura europea che mette le mani nelle tasche degli italiani” verso la quale il governo italiano si opporrà. Sono state accampate motivazioni che appaiono come le scuse di chi è impreparato all’interrogazione a scuola, del tipo che il nostro Paese ha un patrimonio edilizio storico, contrariamente agli altri Paesi europei il cui parco edilizio è di recente costruzione,oppure che le tempistiche della direttiva sono troppo stringenti visto lo stato di inefficienza in cui versano ancora i nostri edifici, e ancora che non abbiamo misure di sostegno alle opere di riqualificazione o maestranze e professionisti con le idonee competenze… In altre parole l’Italia chiede più tempo.

Il problema invece è che l’ultimo rapporto dell’IPCC, appena pubblicato, riduce ulteriormente la finestra temporale in cui si dovrà intervenire per scongiurare il peggio e rallentare per poi arrestare la crisi climatica. Addirittura parla di soli 7 anni!!

Ma, senza entrare nello scontro tra catastrofisti e negazionisti dell’emergenza climatica, se si ripercorre la nostra storia recente si incontrano una serie di occasioni perdute che, se ben sfruttate come opportunità, avremmo potuto essere più pronti alla transizione energetica, ormai inevitabile e ineluttabile.

Le elenco per sommi capi:

  • dopo la guerra del Kippur, quando i paesi dell’Opec chiusero i rubinetti delle forniture di greggio all’Europa, l’Italia mise in atto alcuni provvedimenti di Austerity come la circolazione delle auto a targhe alterne e le domeniche senz’auto. La Danimarca cominciò certificare le prestazioni energetiche degli edifici. Da noi entrò in vigore la legge 373/76, la prima sul contenimento dei consumi energetici in edilizia, per gli edifici di nuova costruzione.
  • Nel 1991 fu emanata la Legge 10/91, entrata pienamente in vigore con il Decreto attuativo 412/94, in cui si classificava il territorio in zone climatiche, dalla A alla F
  • e si stabilivano nuovi criteri di calcolo e nuovi limiti ai consumi energetici e alle emissioni climalteranti. Questa legge aveva un articolo che prevedeva la certificazione energetica degli edifici ma non du ma emanato il relativo decreto attuativo e perdemmo un’occasione che ci avrebbe fatto guadagnare tempo rispetto ad oggi, sulla scia delle certificazioni degli elettrodomestici, ormai molto efficienti.
  • nel 2005, il D.Lgs 192/05 in recepimento della Direttiva UE sulla prestazione energetica defli edifici, introduce già alcuni degli obiettivi attuali e rende obbligatoria la certificazione energetica degli edifici, con scadenze progressive dal 2007 al 2009, ogni volta che si ha una compravendita, una locazione o una ristrutturazione importante. Il risultato nel nostro Paese è l’aver visto l’obbligo di certificazione dei consumi dell’edificio come ulteriore balzello piuttosto che come opportunità di miglioramento e di risparmio sulla bolletta. Questo ha portato alla svendita di APE (Attestato di Prestazione Energetica) al minor prezzo e, di conseguenza, fatte al risparmio e quindi praticamente inutili. Altra occasione persa!
  • Da circa 25 anni, i vari governi hanno messo in campo una serie di misure di incentivazione degli interventi di ristrutturazione ed efficientamento degli edifici, con varie aliquote di detrazione fiscale, dal 36% al 50% al 65% al 90%, che hanno conseguito minori risultati rispetto alle previsioni, a causa dei continui ripensamenti e modifiche del legislatore, che hanno generato incertezza e sfiducia da parte dei cittadini, dei professionisti e degli addetti ai lavori.
  • Nel 2020 arriva il tanto controverso superbonus 110%, oggetto di inspiegabili attacchi da più parti, basati su una narrazione quanto meno imprecisa che parla di truffe milionarie ai danni dello Stato. Truffe che, dati alla mano, sono concentrate sul bonus facciate e prevalentemente in seno a Poste Italiane, ente dello Stato. Una misura che, sebbene scritta male e attuata peggio, anticipava gli obiettivi europei incentivando e promuovendo la riqualificazione energetica degli edifici che migliorassero le loro prestazioni di almeno due classi. Ennesima occasione persa, per una serie di cambi in corsa delle regole del gioco e per la decisione finale di mettere fine per decreto alla cessione del credito e alla misura stessa a partire dal 2023. Questo ha lasciato migliaia di cittadini e di imprese con studi di fattibilità in sospeso, lavori in corso e crediti maturati nei cassetti fiscali che non vuole più nessuno, esponendo molte imprese al rischio reale di fallimento, con tutte le ripercussioni che ne conseguono sull’intera filiera.

Dopo tutte queste occasioni mancate, oggi ci ritroviamo a dibattere su nuovi incentivi finanziari e fiscali, nuove semplificazioni procedurali e quant’altro quando sarebbe bastato portare avanti, implementare, migliorare tutte le misure che si sono succedute negli anni e dare vita ad un quadro unitario e coerente per addirittura anticipare gli obiettivi posti in essere dall’Europa.

Ma, detto tutto ciò, che fare oggi?

Da cittadino e da addetto ai lavori credo che sia giusto vedere questa Direttiva, più che come un obbligo oneroso, come opportunità di investimento con numerosi risvolti positivi:

  • migliorare le prestazioni energetiche dell’edificio, con abbattimento dei costi in bolletta.
  • migliorare il comfort ambientale interno grazie a pareti più isolanti e impianti più performanti.
  • aumentare il valore dell’immobile con dotazioni nuove che ne protrarranno la vita utile nel tempo.
  • ridurre o eliminare la dipendenza da fonti fossili, causa di conflitti nel mercato che hanno ripercussioni sociali ed economiche, fino ai risvolti bellici.
  • ridurre le emissioni di gas climalteranti con benefici ambientali sul clima in generale e sul microclima e l’inquinamento locali.
  • sfruttare un pacchetto di incentivi disponibili, ai vari livelli, in un momento che durerà a lungo prima che diventi obbligo a totale carico del cittadino.
  • innalzare il livello di competenze di professionisti, imprese, produttori di sistemi e componenti, con conseguente creazione di posti di lavoro e nuova economia.

In altre parole, se è vero che il mercato immobiliare comincia a risentire della notizia secondo la quale gli immobili nelle classi F e G non potranno essere né compravenduti né locati nel giro di pochi anni, non resta che seguire la rotta tracciata dall’Europa e approfittare della congiuntura per effettuare lavori di miglioramento al proprio immobile, in un’ottica di lungo periodo.

Diversamente incorreremmo nell’ennesima procedura di infrazione con multe salate, sempre sulle spalle del contribuente.

A questo punto occorre precisare che sono previste deroghe e supporti per le categorie fragili, che non avrebbero la possibilità di investire nelle opere di riqualificazione, per gli edifici storici, vincolati o meno, per gli edifici temporanei e per i luoghi di culto.

Perciò, niente panico e speriamo che il nostro Paese possa dar luogo ad un recepimento della Direttiva (entro 2 anni dall’entrata in vigore definitiva) che sia conveniente per i cittadini, le imprese e tutti gli attori, con particolare riferimento alle generazioni future che si troveranno ad affrontare la crisi climatica ormai in atto.

In tutto questo, ciascuno dovrà svolgere il suo ruolo, possibilmente in un agire coordinato dal pubblico che ne assuma la regia e sappia coinvolgere adeguatamente i settori privati e i cittadini in un’ottica di far di necessità virtù, secondo il proverbio popolare cinese che recita:“quando soffia il vento del cambiamento, alcuni costruiscono muri e altri mulini a vento”

Quali gli interventi possibili?

La sostituzione di una caldaia a gas con un pompa di calore elettrica è senz’altro uno degli interventi più remunerativi in termini di efficienza e di “salto di classe” energetica. Se poi l’edificio fosse in area in cui è consentita l’installazione di una caldaia a biomassa (pellet, cippato, legna o misto) la sola sostituzione di una caldaia esistente a gas o GPL o gasoli, sarebbe sufficiente a salire di oltre due classi.

Un altro intervento relativamente semplice da realizzare, con impatto limitato sull’edificio, à la sostituzione dei serramenti esterni. Qui il risultato dipende dalla tipologia di infisso da cui si parte. Basti tener conto che un infisso con telaio in legno e vetro singolo ha un valore di trasmittanza U pari a 4,9 W/mqK mentre un serramento con triplo vetro e doppia camera d’aria con gas argon e pellicola bassoemissiva ha una U pari a 0,8 W/mqk. Si capisce bene che se si ha una superficie finestrata ampia i benefici possono essere importanti. Se si abbina questo intervento alla sostituzione della caldaia è molto probabile che si raggiunga lo scopo di aumentare di due classi la prestazione energetica dell’immobile.

Infine abbiamo gli interventi sull’involucro esterno, cioè pareti e tetti, mediante l’applicazione di cappotti termo-isolanti. Questo è sicuramente l’intervento più efficace ma è anche quello più impattante e costoso, da prendere in considerazione nei casi in cui è opportuno intervenire su tetto e facciate per il loro rifacimento a causa del degrado per vetustà o per altre ragioni. In questo caso è ovvio che l’intervento debba tener conto dell’istanza energetica, fermo restando che se si interviene per più del 25% del totale delle superfici disperdenti, la coibentazione è già obbligo di legge vigente.

Infine è bene porre l’attenzione sull’opportunità di adottare energia rinnovabile per soddisfare il fabbisogno, ridotto dagli interventi di efficientamento. Tipicamente installare impianti solari termici per produrre acqua calda sanitaria o integrare il riscaldamento degli ambienti, o installare impianti fotovoltaici per la produzione di energia elettrica con cui alimentare la pompa di calore elettrica che ha sostituito la caldaia a gas.

Come si può dedurre da queste brevi note, è evidente come le opzioni possibili siano varie e che non esistano ricette preconfezionate. Occorrerà rivolgersi a professionisti competenti che possano occuparsi di effettuare gli studi, i calcoli e le valutazioni tecnico-economiche dei vari interventi, caso per caso, ipotizzando lo scenario più idoneo per la committenza.

Ma soprattutto bisognerà seguire l’evoluzione normativa perchè l’argomento è particolarmente fluido perchè i Paesi membri hanno situazioni eterogenee e useranno le loro reciproche influenze per modificare i contenuti della Direttiva, apportando modifiche anche nella fase di recepimento. Noi cercheremo di tenervi aggiornati. Stay tuned.

Egidio Raimondi

Crisi climatica: non abbiamo più tempo?

Crisi climatica
Parliamone

con Egidio Raimondi

Il 24 settembre, in occasione dello sciopero per il cambiamento climatico, abbiamo intervistato il bioarchitetto Egidio Raimondi, socio della Fondazione Est-Ovest. 

Cosa si intende per crisi climatica? Perché è pericolosa? Cosa possiamo fare per contrastare il cambiamento climatico? 

Insieme abbiamo risposto a questa e ad altre domande sull’attuale situazione del pianeta. 

Dobbiamo diventare consapevoli che ognuno di noi può fare qualcosa, dalla scelta di quello che mangia ai mezzi con cui si muove. Ogni nostra azione ha un impatto sul pianeta.

Buona visione

Egidio Raimondi Bioarchitetto

Il lato oscuro della moda

Il lato oscuro della moda

di Giulia Bocca

Il sistema della moda ha prodotto danni incalcolabili in termini di sfruttamento delle risorse ed inquinamento ambientale al punto da essere indicata come una delle industrie più inquinanti al mondo, seconda solo all’industria petrolifera. Il motivo è da ricercarsi nella scelta di materiali e processi produttivi non sostenibili, che vengono adottati da queste aziende nell’ottica di massimizzare il profitto a discapito di tutto.

L'inquinamento industria della moda: l'impatto ambientale

L’inquinamento dell’industria della moda è legato principalmente ai materiali utilizzati che molto spesso sono costituiti da fibre sintetiche. In particolar modo da poliestere, che tra le altre cause, si rende responsabile ogni anno del rilascio di 700 milioni di tonnellate di CO2 e mezzo milione di tonnellate di microplastiche negli oceani, causando un danno enorme all’ecosistema. (Leggi anche: Un Mare di Guai)

Il ciclo di vita dei prodotti realizzati con questi materiali è molto breve a causa della loro scarsa qualità. I capi infatti non possono essere riciclati o riutilizzati, e vengono smaltiti causando il rilascio di numerose sostanze tossiche nell’ambiente (metalli pesanti, gas acidi e  dioxine). 

inquinamento industria moda

L'inquinamento industria della moda: l'impatto sociale

La volontà di risparmiare ad ogni costo non si arresta alla selezione dei materiali, ma coinvolge anche i processi produttivi, in modo particolare la manodopera. Le produzioni vengono collocate in paesi poveri e sottosviluppati, nei quali è possibile far lavorare i dipendenti in condizioni pessime. Essi sono costretti a lavorare in edifici pericolanti con condizioni igenico-sanitarie nocive, esposti costantemente a sostanze tossiche dannose che provocano in coloro che vi si espongono gravi malattie. Sono inoltre sottoposti ad orari di lavoro insostenibili che vengono compensati con salari bassissimi (a Dahka lo stipendio medio è di 10$ al mese). 

Ogni richiesta che gli operai fanno per migliorare la loro condizione di lavoro viene respinta immediatamente, ed ogni protesta violentemente soppressa. Queste persone non hanno nessuna scelta, nessuna voce. Lo ha dimostrato la tragedia avvenuta in Bangladesh nel 2013, in cui un edificio di otto piani, il Rana Plaza è crollato causando la morte di 1129 persone. Dalle indagini è emerso che i lavoratori avevano segnalato più volte la pericolosità dell’edificio, ma erano sempre stati ignorati dai dirigenti. 

Appare dunque evidente che aspettarsi un cambiamento da parte delle aziende di moda è impensabile. Per contrastare questa situazione devono essere i consumatori ad intervenire esigendo dalle aziende più trasparenza. 

Non possiamo più far finta di niente, non sapere non è una scusa, continuare ad acquistare in modo inconsapevole ci rende colpevoli quanto queste imprese del danno arrecato alle persone ed al pianeta.

Fonti

  • Fossil fashion: “The hidden reliance of fast fashion on fossil fuels”
  • Morgan, A., Ross, M., Siegle, L., McCartney, S., Firth, L., Shiva, V., Blickenstaff, D., Life Is My Movie Entertainment (Firm), (2015). The true cost.

Non scherziamo con il fuoco!

Non scherziamo con il fuoco!

Riflessioni su un triste primato

di Egidio Raimondi

L’estate che stiamo vivendo è particolarmente “calda” dal punto di vista dell’emergenza incendi. Erano anni che non registravamo un così alto numero di eventi e una tale estensione di patrimonio boschivo andato in fumo. In Europa siamo secondi solo alla Grecia. Dal 01 gennaio al 14 agosto in Italia è andata in fumo una superficie di 120.166 ettari, grande quasi quanto la citta di Roma”. Abbiamo il primato europeo anche per numero di incendi divampati, davanti alla Spagna. Quelli di grandi dimensioni, oltre i 30 ettari, sono 472(fonte: ANSA su dati forniti dall’European Forest Fire Information Sistem della Commissione Europea). Come distribuzione geografica la maggiore concentrazione è al Sud dove, secondo una ricerca ISMEA, circa il 35% delle colline è abbandonato e il 20% semiabbandonato, privo di presidio sul territorio da parte delle comunità locali. Tra le cause principali rimane senz’altro l’azione dolosa dei piromani ma, date le temperature elevatissime, ben oltre la media stagionale, anche il fattore colposo di cittadini incauti ha un peso rilevante. Sempre più spesso infatti si registrano inneschi dovuti a cicche di sigaretta, vetri abbandonati che generano combustione di foglie secche per effetto lente e altri fenomeni dovuti a comportamenti scorretti e/o superficiali.

La correlazione tra incendi e alte temperature dovute alla crisi climatica è evidente se si osserva la mappa dei roghi diffusa dalla NASA (Fire Information for Resource Management System). Oltre all’Italia e alla Grecia, già citate, troviamo incendi in Turchia, California, Australia, Siberia, Amazzonia, Africa (Zambia, Angola, Congo, Malawi e Madagascar), India, Siberia, Cina, Malesia, Indonesia…

È indubbio che si dovrà acquisire una nuova sensibilità verso il fenomeno, che può essere ricompreso tra gli eventi estremi causati dalla crisi climatica, al pari delle trombe d’aria e delle grandinate che scaricano a terra palle di ghiaccio devastanti. È altrettanto indubbio che si debba agire in logica di adattamento a questi fenomeni e quindi operare per prevenirli, piuttosto che per arginarli, cosa sempre più difficile per la loro entità.

Ed è per questo che inveire contro la mancanza di canadair o la loro gestione privata è fuorviante. Quando siamo all’impiego dei canadair abbiamo già perso! L’incendio si è già sviluppato e siamo già alla drammatica emergenza. Certo più aerei aiuterebbero a domarlo prima e a salvare qualche ettaro ma il vero lavoro è da fare prima che l’incendio si inneschi. Serve un lavoro di prevenzione e di presidio sul territorio, con uomini sul campo nelle zone critiche (le conosciamo), nelle giornate critiche per condizioni atmosferiche ideali al rapido propagarsi di un incendio (alte temperature e venti favorevoli). Servono uomini e mezzi che battano il territorio sia da terra che con droni e altri sistemi di monitoraggio territoriale, e a questo non giova certo il ridimensionamento del Corpo Forestale dello Stato accorpato qualche anno fa con l’Arma dei Carabinieri. 

In un’intervista a L’Avvenire Tonino Perna, ex presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, in fiamme proprio in questi giorni, racconta di un modello di governance che provò ad attuare vent’anni fa, con scarso successo ma che oggi sembra un’occasione persa. Si trattava di affidare i boschi a soggetti del terzo settore, attraverso un bando pubblico, con un contratto che prevedeva un contributo del 50% all’inizio e un ulteriore 50% a fine stagione a patto che fosse bruciato non più dell’1% del territorio affidato. Da 1000 ettari bruciati all’anno si passò a 100 – 150 ! Un successo che arrivo fino a Bruxelles, dove Tonino Perna fu invitato a raccontare l’esperienza positiva. Il progetto durò una decina d’anni e il modello fu riproposto anche nel Parco del Pollino, dove rimase in essere qualche anno di più, ma poi non ebbe seguito. Serve anche il completamento degli strumenti attuativi di una legge che, in assenza di ciò, è inefficace.

La legge quadro in materia di incendi boschivi del 21 novembre 2000 n. 353 prevede che “le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni”. Ma la stessa legge prevede che “entro novanta giorni” i Comuni provvedano a censire mediante apposito catasto le aree interessate da incendi. E qui veniamo alla nota dolente: sono pochissimi i comuni che hanno censito tali aree e il catasto incendi è praticamente inesistente!

Quindi, di fatto, è ancora possibile cambiare destinazione ad aree incendiate e non censite, mantenendo viva una delle motivazioni che spingono i mandanti dei piromani a far appiccare il fuoco. Accanto a questa, che rimane ancora la motivazione principale, troviamo gli interessi locali, come la creazione di nuovi pascoli, le liti tra confinanti con vendette incrociate, a volte anche di stampo mafioso. Non marginale è l’azione di attacco ai parchi, cioè la reazione di coloro che si oppongono all’istituzione di aree protette, viste erroneamente come ostacolo allo sviluppo e all’economia locali. Infine non possiamo non considerare le cause fortuite dovute a imperizia e superficialità, dall’accensione di fuochi per abbruciamento di sterpaglie ai barbecue e falò improvvisati, oltre alla cicca di sigaretta non spenta e altri comportamenti maldestri. Un’ultima nota doverosa va fatta sull’attività di repressione dei piromani, colpevoli di gravissimi ecoreati, che spesso comportano perdite di vite umane e sempre la perdita di animali selvatici o da allevamenti.

Ricci, scoiattoli, cervi, caprioli, volpi, ghiri, passeri, capinere, falchi, tartarughe, salamandre, lucertole… Sono stimati in oltre 20 milioni gli animali selvatici arsi vivi in Italia dall’inizio dell’estate, soprattutto al Sud. In Sardegna invece ha suscitato emozione e innescato una commovente gara di solidarietà per salvare i capi di bestiame, ovini, bovini ed equini, insidiati dalle fiamme che a luglio hanno distrutto un inestimabile patrimonio zootecnico e colturale per un’estensione di 20.000 ettari. Le immagini degli allevatori provenienti da altre zone, anche lontane, con camion carichi di foraggio hanno fatto il giro dei Tg e del web.

Proprio in seguito a questo disastro la comunità dei botanici sardi ha diffuso un comunicato che pone l’accento sulle modalità di recupero ambientale post-roghi, che offre molti spunti di riflessione. Nel documento si cerca di dare un contributo scientifico per valutare le criticità e le opportunità al fine di ottenere un risultato sostenibile e duraturo dal punto di vista socio-economico ed ecologico. In particolare ci si concentra sull’opportunità di rimboschimento ripiantando 100 milioni di nuovi alberi, temendo che siano messe a dimora specie non autoctone, ricordando alcuni interventi realizzati in seguito ai disastrosi incendi del 1983 e del 1994, che alla fine hanno aumentato il dissesto idrogeologico delle aree interessate. Si auspica invece che vengano impiegate risorse per favorire il naturale processo ecologico di rinascita di nuovi getti dagli arbusti bruciati che in gran parte conservano ancora l’apparato radicale. Nel giro di poche settimane, secondo i botanici, si realizzerebbe la ricolonizzazione della montagna da parte della vegetazione, secondo un processo naturale e duraturo. Si chiede di aiutare tale processo naturale, che genera una copertura diversificata di specie, tra arbusti e alberi d’alto fusto, molto più resilienti alla diffusione degli incendi rispetto a coperture uniformi e monospecie. Ulteriore invito dei botanici sardi è al coinvolgimento dei privati nel processo partecipativo volto a ricreare il mosaico agro-silvo-pastorale che possa prevenire e resistere meglio ad eventi futuri, in un trasferimento di conoscenze dalla comunità scientifica, all’ente pubblico, al proprietario terriero privato, che possa dar vita ad una rete di custodi della biodiversità.

Accanto alla solidarietà, che emerge in occasione di ogni calamità, occorre però un’azione investigativa efficace che porti a trovare i responsabili dei roghi e infliggere pene severe per i piromani. Nei casi in cui le indagini sono state condotte con determinazione e strumenti idonei il risultato non si è fatto attendere. Emblematico il caso dell’Isola d’Elba in cui, dopo una stagione di incendi che periodicamente si registravano ogni estate, i piromani furono catturati grazie a indagini effettuate a partire dal DNA rilevato sulle cicche di sigaretta usate per gli inneschi! La ricaduta immediata fu la drastica riduzione degli incendi negli anni a seguire.

Chiudo queste riflessioni con un invito al legislatore a riflettere anche sulla prassi di affidare il servizio di spegnimento incendi a soggetti terzi, di diritto privato. Senza volersi avventurare in insinuazioni fuori luogo, è quanto meno una singolare coincidenza che laddove le Regioni affidano a società terze il servizio antincendio, partono i roghi. Certo non si tratta di una prova ma il sospetto può essere legittimo perché queste società vivono se ci sono gli incendi. Mi limito a dire che forse qualcosa andrebbe rivista, anche in considerazione dell’impatto economico che la gestione dell’emergenza ha sulle casse dello Stato. Secondo uno studio di Coldiretti su dati EFFIS, gli incendi di grandi dimensioni sono cresciuti del +256% rispetto alla media 2008-2020, per un costo complessivo di circa un miliardo di euro, fra opere di spegnimento, bonifica e ricostruzione/ripristino. Ma ai costi immediati vanno aggiunti anche quelli di lungo periodo per il ripristino dell’ecosistema forestale e la ripresa delle attività umane, attività che si distendono mediamente in un arco di tempo di 15 anni!

È dovere di tutti, dal legislatore al semplice cittadino, fare in modo che l’immenso patrimonio in termini di biodiversità, paesaggio e clima non vada in fumo!

Egidio Raimondi

Fare impresa sostenibile

Fare impresa sostenibile

Intervista con l'imprenditore Fernando Favilli

Oggi parleremo di impresa sostenibile con Fernando Favilli, presidente di Probios Spa. 

Cos’è Probios? Può essere definita un’impresa sostenibile?

Probios è un’azienda nata nel 1978 per diffondere l’alimentazione biologica e soprattutto per far capire l’importanza della qualità cibo nella nostra vita quotidiana. E’ sicuramente un ottimo esempio di impresa sostenibile.

Cosa significa impresa sostenibile? Ed in che modo Probios lo è?

L’impresa sostenibile è quella che mette attenzione alla tutela dei propri lavoratori, salvaguarda  l’ambiente che la circonda, rispetta i fornitori pagando il giusto prezzo e non speculando sui loro servizi.

Fin dall’inizio della mia storia in Probios gli obiettivi sono stati di creare qualcosa che contribuisse a migliorare a 360° tutto quello che ci circonda. Lasciare qualcosa meglio di come l’abbiamo trovato.

Per me Probios deve essere come una grande famiglia dove tutti dobbiamo sostenerci l’uno con l’altro, lavorare in armonia, possibilmente con il sorriso visto le tante ore che passiamo al lavoro.

Lavoriamo in un ambiente confortevole con i giusti spazi, una mensa assistita biologica ed una grande area relax a disposizione di tutti per attività o passatempo.

Selezioniamo i fornitori non in base all’interesse, anche se essendo un azienda anche quello dobbiamo tutelare, ma principalmente a come lavorano ed all’affinità che hanno rispetto ai nostri valori.

Le materie prime devono essere italiane, dove possibile, non comprare in paesi lontani per risparmiare sul costo ed inquinare il doppio un esempio su tutti.

Al giorno d’oggi quanto è difficile per un’impresa essere sostenibile? 

Certamente è difficile fare impresa sostenibile, ti devi scontrare con una concorrenza speculativa che rischia di farti fuori con i prezzi inferiori o con politiche più spregiudicate. Devi scontrarti con falsi annunci o poco chiari che si spacciano per il massimo dell’etica o del rispetto e dopo vai a vedere fra le righe e scopri bassezze intollerabili.

Quale consiglio daresti ai consumatori? 

Il mio consiglio  per tutti i consumatori è di non fermarsi all’apparenza ma vedere chi c’è dietro ad un’azienda, ad un produttore ad un marchio. Vedere come veramente si muovono, agiscono e se quello che decantano risponde a realtà e consapevolmente scegliere. Questo in tutti i settori.

Ho visto l’esempio di una polpa di frutta coltivata in Sud America, confezionata in india e venduta in Italia….. ma siamo pazzi…. Si coltiva benissimo in Maremma , si trasforma in Toscana e lì la vendiamo…. Semplice!

Abbiamo il potere della libera scelta, almeno negli acquisti, non ci facciamo abbindolare da slogan o falsi miti, facciamo una scelta consapevole e rispettosa.

I consumatori premiano sempre più questo e in Probios siamo sicuri di avere un seguito fedele proprio per la nostra coerenza e questo è il più bel premio che possiamo ricevere.

Plastic free? Quanta e quale plastica per un futuro sostenibile?

Plastic free?
II parte

Quanta e quale plastica per un futuro sostenibile?

di Egidio Raimondi

Una settimana fa abbiamo pubblicato alcune riflessioni sull’invasione delle materie plastiche che, abbinate alle logiche dell’usa e getta, stanno diventando un grande problema per la sopravvivenza degli ecosistemi sul pianeta.

Dal breve e sintetico excursus storico che sulle materie plastiche nel mondo, dai primi brevetti alle produzioni industriali, fino a giungere ai giorni nostri, emerge chiarissima la necessità di ridurre le quantità prodotte, diffuse, utilizzate ed eliminate come rifiuto.

Con altrettanta evidenza è emersa la constatazione che immaginare un mondo senza plastica è pura utopia.

E allora la riflessione si sposta, oltre che sul piano quantitativo, su quello qualitativo. Quello della ricerca  scientifica e della sperimentazione industriale, che porti sul mercato materiali performanti, accessibili e sostenibili.

Sin dal 1990 esiste sul mercato il Mater-Bi, una bioplastica biodegradabile e compostabile brevettata dalla Novamont, del gruppo Montedison, ormai largamente diffuso sotto forma di imballaggi, giocattoli, posate monouso e in sostituzione del polietilene nei sacchetti per la spesa.

Ricavato dall’amido di mais è la prima bioplastica a larghissima diffusione entrata ormai nell’uso comune e quotidiano. 

Quella delle plastiche bio-based è una delle strade già tracciate e da percorrere per avere a disposizione materiali che possano rientrare nel ciclo naturale, a fine vita, attraverso processi di compostaggio resi possibili dalla loro biodegradabilità.

Oltre al Mater-Bi esistono molte esperienze che hanno portato sul mercato “plastiche” di origine naturale estratte dalla barbabietola, dalla soia, dalla canna da zucchero… per gli impieghi più disparati, dagli oggetti di design, agli imballaggi, all’arredo urbano.

Un filone di ricerca parallelo e affine è quello che studia la possibilità di ricavare materiali dal recupero degli scarti agroalimentari, prodotti dall’industria di trasformazione ma anche dall’agricoltura stessa. Nascono così la cosiddetta “pelle vegana” ricavata dalle bucce di mela, polimeri con fibre di carciofo in matrice bio-based, materiali ricavati dalle bucce di pomodoro, dalle vinacce, dai funghi, dalla paglia, dalla lolla di riso…

Altra strada da continuare a percorrere ed esplorare è quella delle plastiche riciclate che, danno una vita nuova ai polimeri giunti a fine ciclo di vita utile, trasformando il rifiuto in nuova risorsa, in materia seconda per la realizzazione di prodotti che hanno caratteristiche inferiori di quelli da “vita precedente”.

Il riciclo della plastica è attività consolidata da decenni, al punto che esiste un consorzio, il Corepla nato nel 1997 e subentrato al cessato Replastic, che si occupa della raccolta, riciclo e recupero degli imballaggi in plastica. Tra le attività del consorzio molte sono rivolte alla riduzione della plastica alla fonte, per una produzione che segua i principi dell’eco-design e la valutazione del ciclo di vita (LCA).

Concludo queste brevi note ricordando ancora una volta che ciascuno di noi può contribuire allo sviluppo delle strategie virtuose descritte, con i gesti e le scelte quotidiane.

I due momenti più importanti sono la scelta consapevole in fase di acquisto di un prodotto e la corretta raccolta differenziata in fase di smaltimento a fine vita.

Ancora una volta, nei piccoli gesti si nascondono i grandi progressi nel miglioramento dello stato di salute del pianeta a degli esseri viventi che lo abitano.

Egidio Raimondi

Plastic free?

Plastic free?

La posa “plastica” del governo italiano

di Egidio Raimondi

Il 3 luglio scorso in tutti gli stati UE è entrata in vigore la Direttiva “single use plastic”, che pone forti e decisi limiti alla produzione, diffusione e impiego della plastica monouso.
Innanzitutto occorre fare chiarezza, in un’epoca in cui lo slogan facile rischia di generare confusione e disorientamento. Plastic-free è un’utopia. Un mondo senza plastica è inconcepibile… basta guardarsi intorno, dall’arredo di casa, agli strumenti informatici che maneggiamo, alle auto e altri mezzi di trasporto con cui ci muoviamo, ai dispositivi medici con cui ci curiamo… siamo circondati da materie plastiche o meglio polimeri plastici, nella stragrande maggioranza dei casi impossibili da sostituire con altri materiali.
La plastica, da quando è stata “inventata” ha seguito ed è stata artefice dello sviluppo delle società avanzate, grazie alle caratteristiche straordinarie come la resistenza agli urti, la leggerezza, l’economicità, la duttilità, la resistenza agli agenti aggressivi, la possibilità di assumere qualsiasi forma (la plasticità appunto)…

L’errore è stato quello di rendere usa e getta un materiale nato per essere durevole. Il vero problema è la plastica monouso, quella usa e getta. Il PET (PoliEtilenTereftalato) delle bottigliette d’acqua minerale e delle varie bibite, i piatti i bicchieri e le stoviglie usa e getta, gli imballaggi in cellophane per alimenti e i termoretraibili usati nelle spedizioni…

Siamo arrivati ad avere enormi quantità di rifiuti di materiale plastico che, se inceneriti producono diossina e altre emissioni potenzialmente dannose per la salute umana e degli altri esseri viventi dell’ecosistema. Spesso le plastiche vengono disperse nell’ambiente, anche in forme “sminuzzate”, che vanno a formare le cosiddette microplastiche che poi finiscono nei mari e nei pesci che poi finiscono sulla nostra tavola.

La situazione è così grave che gli esperti hanno stimato che ognuno di noi ingerisce microplastiche in quantità pari al peso di una carta di credito a settimana. Aggiungo che altri ricercatori stimano che nel 2050, se continuerà il trend in atto, nei mari ci sarà più plastica che pesce! E pensare che una delle prime versioni della plastica fu la celluloide, con cui si realizzarono tanti manufatti sostituendo l’avorio e quindi salvando la vita a molti elefanti!

Con questo primo breve articolo ci ripromettiamo di ripercorrere le tappe dell’evoluzione della plastica, dalla materie naturali ai derivati del petrolio e alla chimica di sintesi, fino alle ultime ricerche sui biopolimeri, per distinguere in maniera netta i benefici dai problemi i termini di impatto di questo straordinario e ormai controverso materiale. 

La cosa che qui ci preme sottolineare però, visto che si tratta di notizia recente, è che l’Italia e la Polonia sono stati gli unici tra tutti i paesi membri dell’UE a rimandare il recepimento della Direttiva europea.

La cosa stride ancor di più se si considera che il countdown dell’orologio climatico recentemente installato sulla facciata del Ministero della Transizione Ecologica, indica i 6 anni e 6 mesi il raggiungimento del punto di non ritorno, cioè il tempo utile per adottare misure di contrasto e adattamento ai cambiamenti climatici in atto.

Un enorme display visibile su un’arteria di scorrimento veloce coma la via Cristoforo Colombo a Roma che non è coerente con le decisioni prese negli uffici del Ministero. Una realtà che si adatta “plasticamente” a necessità e interessi di pochi e di brevissimo periodo, dimenticando l’orizzonte globale e il bene comune!

Egidio Raimondi

Giornata Mondiale contro la Desertificazione 2021

Giornata Mondiale contro la Desertificazione 2021

Ricostruiamo meglio con suoli in salute

di Egidio Raimondi

Dal 1994 ogni 17 giugno si celebra la giornata mondiale della desertificazione e della siccità. Istituita dalle Nazioni Unite è strettamente connessa alla giornata dell’ambiente su cui abbiamo scritto il 5 giugno (https://fondazione-est-ovest.it/giornata-mondiale-ambiente-2021/) e quest’anno ruota intorno al tema “Ricostruiamo meglio con suoli in salute”.

Il tema è coerente con il decennio ONU 2021 – 2030 per il ripristino dell’ecosistema e con uno dei 17 goals dell’Agenda 2030, precisamente il n. 15 – vita sulla terra che, testualmente, si propone di “proteggere ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre, gestire sostenibilmente le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e far retrocedere il degrado del terreno, e fermare la perdita di diversità biologica

La causa principale della desertificazione e della perdita di terreno fertile e sano, più che la crisi climatica, è l’attività umana, a conferma di quanto sosteniamo da tempo in condivisione con molte altre associazioni che osservano i fenomeni evolutivi della società, dell’economia e dell’ambiente, con cui abbiamo modo di confrontarci costantemente.

L’agricoltura industrializzata, che esaurisce il suolo sfruttandolo fino a renderlo arido,  gli allevamenti intensivi che distruggono foreste per avere i pascoli  necessari a nutrire migliaia di capi (emblematico il caso della foresta amazzonica) e che compattano il suolo alterando il microclima locale, la cattiva gestione delle risorse idriche, con deviazione di corsi d’acqua e alterazione degli equilibri nei reticoli idrici superficiali, l’abbattimento indiscriminato di alberi che trattengono il terreno in siti scoscesi e in ogni caso lo strato superficiale, l’attività edilizia selvaggia che, nonostante molti governi locali abbiano adottato strategia a consumo di suolo zero, continua a “mangiarne” al ritmo di 2 mq al secondo!

Secondo il rapporto ISPRA 2020, sui rilevamenti del 2019 in Italia il consumo di suolo, inteso come occupazione permanente, cresce più della popolazione. A fronte di 420.000 nuovi nati sono stati sigillati 57 km quadrati di suolo, cioè 57 milioni di mq, come se ogni neonato portasse con sè in culla 135 mq di cemento!

Ultima notazione, il consumo di suolo è maggiore nelle aree a maggior rischio idrogeologico e sismico, con la Sicilia maglia nera. Ma esistono anche realtà positive da emulare, come la Valle d’Aosta che nel 2019 ha impermeabilizzato solo 3 ettari di territorio, confermandosi regione italiana più vicina all’obiettivo consumo di suolo zero.

Il tema del suolo come “ultima risorsa” fu affrontato con contributi di altissimo livello scientifico nell’edizione 2012 dei Colloqui di Dobbiaco, a cui partecipai raccogliendo moltissimi stimoli e spunti di riflessione che cerco di riassumere e condividere qui.

Il punto di partenza è la constatazione che “il suolo produce beni e servizi essenziali per la nostra vita” e svolge varie funzioni essenziali:

  • produce biomassa sotto forma di cibo per il genere umano e gli animali,
  • svolge la funzione di filtro, massa di accumulo e ambiente di trasformazione fra atmosfera, falda acquifera e litosfera. Ad esempio filtra l’acqua piovana producendo acqua potabile che poi beviamo,
  • è la più grande riserva genetica del pianeta dato che ospita la maggioranza degli organismi viventi (per numero e massa) tra tutti quelli che popolano la Terra,
  • è la base fisica di tutte le infrastrutture umane: gli edifici in cui viviamo, le strade, gli impianti produttivi….
  • fornisce le materie prime minerali necessarie a realizzare le nostre infrastrutture: argille, sabbie, ghiaie….
  • è portatore di un patrimonio culturale perché custodisce innumerevoli testimonianze archeologiche e paleontologiche, proteggendole dall’erosione e conservando informazioni essenziali sulla storia del territorio e delle generazioni che lo hanno popolato.

Il dato più impressionante che è emerso è che per rigenerare un solo centimetro di suolo (come spessore) occorrono dai tre ai quattro secoli!!! e tremila anni per rigenerarne uno spessore sufficiente ai fini agricoli….

Quindi ogni volta che si libera del suolo, magari demolendo un edificio o un distributore di carburanti, oltre a bonificare il suolo, sappiamo che dovremo aspettare tutti quegli anni perchè ritorni com’era all’origine.

Esistono varie esperienze di rigenerazione di suoli inquinati, ad esempio attraverso l’impiego di piantagioni di canapa, notoriamente in grado di assorbire metalli pesanti, come nel caso di aree nei pressi dell’ILVA di Taranto. Si tratta di azioni che accelerano il processo ma vedremo dai risultati delle sperimentazioni  quali effetti reali si avranno, in termini temporali e di qualità del terreno. Rendere sani i terreni degradati, ad esempio attraverso il fitorisanamento appena accennato, oltre a ripristinare l’equilibrio locale e restituire i terreni all’uso agricolo, produce una serie di vantaggi, anche economici.

“Il ripristino del territorio può contribuire notevolmente alla ripresa economica post-COVID19 – ha dichiarato Ibrahim Thiaw, Segretario esecutivo dell’Convenzione ONU per Combattere la Desertificazione (UNCCD) – Investire nel ripristino della terra crea posti di lavoro e genera benefici economici e potrebbe fornire mezzi di sussistenza in un momento in cui si stanno perdendo centinaia di milioni di posti di lavoro. Le iniziative di ripristino intelligente del territorio sarebbero particolarmente utili per le donne e i giovani, che spesso sono gli ultimi a ricevere aiuti in tempi di crisi. Mentre entriamo nel decennio delle Nazioni Unite per il ripristino dell’ecosistema, abbiamo una reale possibilità di ricostruire meglio dalla pandemia di Covid-19. Se i paesi possono ripristinare i quasi 800 milioni di ettari di terra degradata che si sono impegnati a ripristinare entro il 2030, possiamo salvaguardare l’umanità e il nostro Pianeta dal pericolo incombente“.

Ancora una volta dobbiamo ammettere che la principale causa della desertificazione è l’attività umana e “Non possiamo continuare a concentrarci solo sulla crescita economica a scapito di tutto il resto; la nostra crescita economica dipende dal nostro Pianeta – ha affermato Volkan Bozkir – Dobbiamo trovare un equilibrio tra esigenze economiche, sociali e ambientali”.

E torniamo alla definizione di sostenibilità del Rapporto Brundtland, conosciuto anche come “Our common future”, pubblicato nel 1978!

Il tempo sta correndo veloce e noi siamo ancora troppo indietro, abbiamo fatto pochi passi nella direzione giusta e tanti nella direzione sbagliata. È ora di mettere in campo azioni che possano invertire questa tendenza, senza aspettare i governi e le leggi che emaneranno, ma agendo dal basso. È ora di continuare a parlare ma cominciare a fare!

Ognuno di noi può migliorare la situazione e contribuire ad invertire la rotta, con le proprie azioni e le proprie scelte quotidiane, nella propria vita personale e professionale, facendo parte di una rete planetaria che condivide dei valori e che agisce come una immensa coscienza collettiva, abbattendo tutti i confini, amministrativi, culturali, economici… 

il suolo in cattiva salute non ha confini e compromette il cibo che mangiamo, l’acqua che beviamo e l’aria che respiriamo.

Egidio Raimondi

Giornata Mondiale dell’Ambiente 2021

Giornata Mondiale dell'Ambiente 2021

Basta Ego-Sistemi, ripristiniamo gli Eco-Sistemi!

di Egidio Raimondi

Istituita nel 1972 dall’ONU, la giornata mondiale dell’ambiente quest’anno ha come tema il “Ripristino degli Ecosistemi”, danneggiati e compromessi da secoli di atteggiamento predatorio da parte del genere umano, che ha vissuto secondo il modello della crescita infinita in un sistema dalle risorse finite.

Dire che un sistema ha risorse finite non significa che queste siano destinate ad esaurirsi iesorabilmente, prima o poi, ma che bisogna calibrare l’uso delle risorse in modo che queste abbiano il tempo di rigenerarsi, in un processo circolare continuo, che regola appunto gli ecosistemi i equilibrio.

Di fronte alla contrapposizione tra consumo e risparmio delle risorse il termine corretto è proprio l’uso razionale di esse.

 

Nel deserto del Sahara ha senso risparmiare l’acqua… non la sabbia. Al contrario in una laguna ha senso risparmiare il terreno… non l’acqua. Lo stesso dicasi in un bosco rigoglioso, in cui ha senso risparmiare la radiazione solare…. non il legno.

In altre parole, se una risorsa è presente in abbondanza la posso utilizzare, a patto che mantenga l’equilibrio necessario a farla riprodurre nel tempo. Se invece è scarsa devo trovare alternative per non arrivare alla sua estinzione.

È quanto sta accadendo nei mari, a causa della pesca indiscriminata e spesso di frodo… nella foresta amazzonica per la deforestazione selvaggia, dovuta sia alla creazione di pascoli per gli allevamenti intensivi che al prelievo di legno pregiato. Ma è anche quello che accaduto per il petrolio, estraendo fino quasi all’esaurimento, in un paio di secoli o poco più tutto quello prodotto in milioni di anni dal nostro pianeta.

Molti pensano che tutto ciò sia inevitabile a causa dei fabbisogni crescenti di una popolazione mondiale in crescita esponenziale, che va nutrita e riscaldata garantendole condizioni di vita sempre migliori.

Appena si approfondisce però ci si accorge che non è proprio così e che la crescita demografica è un alibi dei grandi gruppi economici che mirano essenzialemnte al maggior profitto, creando sprechi e squilibri nella distribuzione delle risorse, con ulteriori ricadute in termini di rifiuti, inquinamento di aria suolo e acqua, conflitti sociali, malattie e crisi sanitarie, fino alle guerre!

Astenendoci dal giudizio politico sulle forme di organizzazione della società, dal socialismo al capitalismo al liberismo sfrenato, una cosa è certa: il modello è sbagliato, non funziona. I costi sono maggiori dei benefici.

Il modello di sviluppo dominante nel nostro unico pianeta può essere definito come un Ego-Sistema basato sul dominio egoistico del genere umano, che si pone al vertice della piramide del mondo animale e vegetale, per determinare con le sue scelte l’andamento della vita sulla Terra.

Il concetto di Eco-Sistema invece è ben diverso, basato com’è su un essere umano pari tra i pari, integrato con gli altri esseri viventi e in relazione armonica con essi, ciascuno con il proprio ruolo per lo sviluppo armonico della vita.

Ripristinare gli ecosistemi purtroppo non è cosa facile perchè il nostro pianeta, come ogni sistema complesso, ha un’inerzia intrinseca che richiede decine o centinaia di anni per ritornare all’equilibrio perduto. 

Il cambiamento climatico manifestatosi con l’innalzamento delle temperature medie, causa di una repentina accelerazione del processo di scioglimento dei ghiacci perenni, richiederà secoli per invertire la tendenza. Ammesso che si riesca a rallentare e poi fermare il processo con azioni efficaci che, per ora non si vedono. Di crisi climatica si parla sin dagli anni Cinquanta, al tempo del Club di Roma di Aurelio Peccei ma, in settant’anni non siamo stati capaci di fare nulla per evitarlo. Tutti gli impegni presi nei vari COP, a partire dal Protocollo di Kyoto, non solo sono stati insignificanti per la modesta entità, ma sono stati puntualmente disattesi dai governi in tutto il mondo, salvo poche rare eccezioni.

Ora che siamo ad un passo dal punto di non ritorno, secondo alcuni esperti superato già da anni, dobbiamo prendere atto del fatto che la politica dei piccoli passi non ha funzionato. Pertanto occorrono scelte radicali e immediate per rallentare il fenomeno nel breve periodo, arrestarlo nel medio e limitare i danni a lungo termine.

Sono le tesi finali dell’ultima edizione dei Colloqui di Dobbiaco, a cui ho partecipato apprezzandone come sempre l’altissima qualità del dibattito scientifico.

Ormai si ragiona solo in termini di adattamento e resilienza.

La situazione è tale che si profilano all’orizzonte alcuni rischi:

  • in prima istanza il rischio che la consapevolezza di non avere più tempo porti all’atteggiamento di abbandono della lotta, tipico di chi ormai è spacciato e non ha più nulla da perdere o da difendere;
  • in secondo luogo il rischio che la pandemia da COVID-19 assorba tutte le energie e il focus politico-economico-sociale, mettendo in secondo piano la crisi climatica, dimenticando paradossalmente che i due fenomeni sono strettamente connessi.

Sarà bene ribadire che la crisi climatica è la madre di tutte le crisi. Dai flussi migratori biblici a causa della desertificazione e salinizzazione delle acque, all’innalzamento dl livello dei mari, alla progressiva perdita della corrente del Golfo, alla morte di coralli e altre specie ittiche per l’innalzamento delle temperature degli oceani, all’aumento dell’inquinamento e degli impatti umani, sempre più ammassati in megalopoli, ormai metastasi urbane sfuggite ad ogni controllo, dal politico all’urbanista. Fenomeni questi ultimi che incrementano la crisi climatica in un circolo virtuoso che sta diventando sempre più pericoloso per la permanenza dell’uomo sul pianeta che, secondo alcuni esperti è vicino all’ennesima estinzione di massa, come quella che vide la fine dei dinosauri. Co una differenza sostanziale però: i dinosauri si estinsero per cause esogene, il meteorite, indipendenti dalla loro volontà… l’umanità invece si sta suicidando con le sue scelte sbagliate!

Abbandonando per un attimo la visione apocalittica, per assumere un atteggiamento più ottimista e fiducioso nel futuro basato sulla consapevolezza del problema, primo passo per la sua soluzione, domandiamoci cosa possiamo fare.

Innanzitutto è importante convenire sul fatto che ognuno di noi, nella sua vita quotidiana personale e professionale, può fare la sua parte e dare il suo contributo. Se si ragiona come coscienza collettiva, senza attribuire le responsabilità ad altri e senza abdicare al proprio dovere di singoli in relazione con il tutto, si possono ottenere importanti risultati in termini di miglioramento della situazione.

Innanzitutto occorre portare a termine rapidamente la transizione energetica dalle fonti fossili alle fonti rinnovabili. Se l’età della pietra non è finita perchè è finita la pietra non vedo perchè si debba aspettare che finisca il petrolio!

Secondo impegno fondamentale è la riduzione dei rifiuti attraverso la trasformazione dei processi produttivi da lineari a circolari, imitando la natura.

In terzo luogo occorre ridurre le filiere e accorciare le distanze della distribuzione delle merci, ripristinando il regionalismo e il localismo, che valorizzi le identità territoriali e le competenze specifiche.

Ancora, riscoprire forme di produzione agricola e zootecnica a basso impatto, abolendo le logiche industriali intensive, basate sul massiccio impiego di sostanze chimiche di sintesi, dannose per gli alimenti, per l’aria, le falde idriche e i suoli.

Rivedere il rapporto città/campagna, non più come modelli contrapposti a cui ricorrere a seconda delle congiunture: in epoca di boom economico tutti i città e i epoca COVID tutti in campagna o nei borghi rurali! Serve una maggiore osmosi tra le due realtà, con più campagna in città (orti di prossimità, forestazione, reti ecologiche…) e più città in campagna (trasporto pubblico locale, infrastruttura web, presidi sanitari, scuole…)

Smettiamola di confondere l’ambiente con il paesaggio. Si tratta di due categorie molto diverse, che hanno bisogno di essere integrate e non lasciate contrapposte per posizioni ideologiche, che non portano a nessun risultato.

Mi spiego con un esempio. Se dobbiamo incrementare la produzione di energia da fonte rinnovabile dobbiamo trovare il modo di integrare nel paesaggio le pale eoliche e/o i campi fotovoltaici. Farlo è una sfida a cui non possiamo rinunciare, passando dai divieti vincolistici alle aperture totali spesso dovute a vuoti normativi. Dobbiamo trovare il modo di salvaguardare il paesaggio migliorando l’ambiente. Pensiamo agli acquedotti romani che attraversano vallate e luoghi di grande valore paesaggistico e ne sono entrati a far parte.

Che occorra soltanto aspettare dei secoli? Ai posteri l’ardua sentenza!

Egidio Raimondi