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Non scherziamo con il fuoco!

Non scherziamo con il fuoco!

Riflessioni su un triste primato

di Egidio Raimondi

L’estate che stiamo vivendo è particolarmente “calda” dal punto di vista dell’emergenza incendi. Erano anni che non registravamo un così alto numero di eventi e una tale estensione di patrimonio boschivo andato in fumo. In Europa siamo secondi solo alla Grecia. Dal 01 gennaio al 14 agosto in Italia è andata in fumo una superficie di 120.166 ettari, grande quasi quanto la citta di Roma”. Abbiamo il primato europeo anche per numero di incendi divampati, davanti alla Spagna. Quelli di grandi dimensioni, oltre i 30 ettari, sono 472(fonte: ANSA su dati forniti dall’European Forest Fire Information Sistem della Commissione Europea). Come distribuzione geografica la maggiore concentrazione è al Sud dove, secondo una ricerca ISMEA, circa il 35% delle colline è abbandonato e il 20% semiabbandonato, privo di presidio sul territorio da parte delle comunità locali. Tra le cause principali rimane senz’altro l’azione dolosa dei piromani ma, date le temperature elevatissime, ben oltre la media stagionale, anche il fattore colposo di cittadini incauti ha un peso rilevante. Sempre più spesso infatti si registrano inneschi dovuti a cicche di sigaretta, vetri abbandonati che generano combustione di foglie secche per effetto lente e altri fenomeni dovuti a comportamenti scorretti e/o superficiali.

La correlazione tra incendi e alte temperature dovute alla crisi climatica è evidente se si osserva la mappa dei roghi diffusa dalla NASA (Fire Information for Resource Management System). Oltre all’Italia e alla Grecia, già citate, troviamo incendi in Turchia, California, Australia, Siberia, Amazzonia, Africa (Zambia, Angola, Congo, Malawi e Madagascar), India, Siberia, Cina, Malesia, Indonesia…

È indubbio che si dovrà acquisire una nuova sensibilità verso il fenomeno, che può essere ricompreso tra gli eventi estremi causati dalla crisi climatica, al pari delle trombe d’aria e delle grandinate che scaricano a terra palle di ghiaccio devastanti. È altrettanto indubbio che si debba agire in logica di adattamento a questi fenomeni e quindi operare per prevenirli, piuttosto che per arginarli, cosa sempre più difficile per la loro entità.

Ed è per questo che inveire contro la mancanza di canadair o la loro gestione privata è fuorviante. Quando siamo all’impiego dei canadair abbiamo già perso! L’incendio si è già sviluppato e siamo già alla drammatica emergenza. Certo più aerei aiuterebbero a domarlo prima e a salvare qualche ettaro ma il vero lavoro è da fare prima che l’incendio si inneschi. Serve un lavoro di prevenzione e di presidio sul territorio, con uomini sul campo nelle zone critiche (le conosciamo), nelle giornate critiche per condizioni atmosferiche ideali al rapido propagarsi di un incendio (alte temperature e venti favorevoli). Servono uomini e mezzi che battano il territorio sia da terra che con droni e altri sistemi di monitoraggio territoriale, e a questo non giova certo il ridimensionamento del Corpo Forestale dello Stato accorpato qualche anno fa con l’Arma dei Carabinieri. 

In un’intervista a L’Avvenire Tonino Perna, ex presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, in fiamme proprio in questi giorni, racconta di un modello di governance che provò ad attuare vent’anni fa, con scarso successo ma che oggi sembra un’occasione persa. Si trattava di affidare i boschi a soggetti del terzo settore, attraverso un bando pubblico, con un contratto che prevedeva un contributo del 50% all’inizio e un ulteriore 50% a fine stagione a patto che fosse bruciato non più dell’1% del territorio affidato. Da 1000 ettari bruciati all’anno si passò a 100 – 150 ! Un successo che arrivo fino a Bruxelles, dove Tonino Perna fu invitato a raccontare l’esperienza positiva. Il progetto durò una decina d’anni e il modello fu riproposto anche nel Parco del Pollino, dove rimase in essere qualche anno di più, ma poi non ebbe seguito. Serve anche il completamento degli strumenti attuativi di una legge che, in assenza di ciò, è inefficace.

La legge quadro in materia di incendi boschivi del 21 novembre 2000 n. 353 prevede che “le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni”. Ma la stessa legge prevede che “entro novanta giorni” i Comuni provvedano a censire mediante apposito catasto le aree interessate da incendi. E qui veniamo alla nota dolente: sono pochissimi i comuni che hanno censito tali aree e il catasto incendi è praticamente inesistente!

Quindi, di fatto, è ancora possibile cambiare destinazione ad aree incendiate e non censite, mantenendo viva una delle motivazioni che spingono i mandanti dei piromani a far appiccare il fuoco. Accanto a questa, che rimane ancora la motivazione principale, troviamo gli interessi locali, come la creazione di nuovi pascoli, le liti tra confinanti con vendette incrociate, a volte anche di stampo mafioso. Non marginale è l’azione di attacco ai parchi, cioè la reazione di coloro che si oppongono all’istituzione di aree protette, viste erroneamente come ostacolo allo sviluppo e all’economia locali. Infine non possiamo non considerare le cause fortuite dovute a imperizia e superficialità, dall’accensione di fuochi per abbruciamento di sterpaglie ai barbecue e falò improvvisati, oltre alla cicca di sigaretta non spenta e altri comportamenti maldestri. Un’ultima nota doverosa va fatta sull’attività di repressione dei piromani, colpevoli di gravissimi ecoreati, che spesso comportano perdite di vite umane e sempre la perdita di animali selvatici o da allevamenti.

Ricci, scoiattoli, cervi, caprioli, volpi, ghiri, passeri, capinere, falchi, tartarughe, salamandre, lucertole… Sono stimati in oltre 20 milioni gli animali selvatici arsi vivi in Italia dall’inizio dell’estate, soprattutto al Sud. In Sardegna invece ha suscitato emozione e innescato una commovente gara di solidarietà per salvare i capi di bestiame, ovini, bovini ed equini, insidiati dalle fiamme che a luglio hanno distrutto un inestimabile patrimonio zootecnico e colturale per un’estensione di 20.000 ettari. Le immagini degli allevatori provenienti da altre zone, anche lontane, con camion carichi di foraggio hanno fatto il giro dei Tg e del web.

Proprio in seguito a questo disastro la comunità dei botanici sardi ha diffuso un comunicato che pone l’accento sulle modalità di recupero ambientale post-roghi, che offre molti spunti di riflessione. Nel documento si cerca di dare un contributo scientifico per valutare le criticità e le opportunità al fine di ottenere un risultato sostenibile e duraturo dal punto di vista socio-economico ed ecologico. In particolare ci si concentra sull’opportunità di rimboschimento ripiantando 100 milioni di nuovi alberi, temendo che siano messe a dimora specie non autoctone, ricordando alcuni interventi realizzati in seguito ai disastrosi incendi del 1983 e del 1994, che alla fine hanno aumentato il dissesto idrogeologico delle aree interessate. Si auspica invece che vengano impiegate risorse per favorire il naturale processo ecologico di rinascita di nuovi getti dagli arbusti bruciati che in gran parte conservano ancora l’apparato radicale. Nel giro di poche settimane, secondo i botanici, si realizzerebbe la ricolonizzazione della montagna da parte della vegetazione, secondo un processo naturale e duraturo. Si chiede di aiutare tale processo naturale, che genera una copertura diversificata di specie, tra arbusti e alberi d’alto fusto, molto più resilienti alla diffusione degli incendi rispetto a coperture uniformi e monospecie. Ulteriore invito dei botanici sardi è al coinvolgimento dei privati nel processo partecipativo volto a ricreare il mosaico agro-silvo-pastorale che possa prevenire e resistere meglio ad eventi futuri, in un trasferimento di conoscenze dalla comunità scientifica, all’ente pubblico, al proprietario terriero privato, che possa dar vita ad una rete di custodi della biodiversità.

Accanto alla solidarietà, che emerge in occasione di ogni calamità, occorre però un’azione investigativa efficace che porti a trovare i responsabili dei roghi e infliggere pene severe per i piromani. Nei casi in cui le indagini sono state condotte con determinazione e strumenti idonei il risultato non si è fatto attendere. Emblematico il caso dell’Isola d’Elba in cui, dopo una stagione di incendi che periodicamente si registravano ogni estate, i piromani furono catturati grazie a indagini effettuate a partire dal DNA rilevato sulle cicche di sigaretta usate per gli inneschi! La ricaduta immediata fu la drastica riduzione degli incendi negli anni a seguire.

Chiudo queste riflessioni con un invito al legislatore a riflettere anche sulla prassi di affidare il servizio di spegnimento incendi a soggetti terzi, di diritto privato. Senza volersi avventurare in insinuazioni fuori luogo, è quanto meno una singolare coincidenza che laddove le Regioni affidano a società terze il servizio antincendio, partono i roghi. Certo non si tratta di una prova ma il sospetto può essere legittimo perché queste società vivono se ci sono gli incendi. Mi limito a dire che forse qualcosa andrebbe rivista, anche in considerazione dell’impatto economico che la gestione dell’emergenza ha sulle casse dello Stato. Secondo uno studio di Coldiretti su dati EFFIS, gli incendi di grandi dimensioni sono cresciuti del +256% rispetto alla media 2008-2020, per un costo complessivo di circa un miliardo di euro, fra opere di spegnimento, bonifica e ricostruzione/ripristino. Ma ai costi immediati vanno aggiunti anche quelli di lungo periodo per il ripristino dell’ecosistema forestale e la ripresa delle attività umane, attività che si distendono mediamente in un arco di tempo di 15 anni!

È dovere di tutti, dal legislatore al semplice cittadino, fare in modo che l’immenso patrimonio in termini di biodiversità, paesaggio e clima non vada in fumo!

Egidio Raimondi

Giornata Mondiale dell’Ambiente 2021

Giornata Mondiale dell'Ambiente 2021

Basta Ego-Sistemi, ripristiniamo gli Eco-Sistemi!

di Egidio Raimondi

Istituita nel 1972 dall’ONU, la giornata mondiale dell’ambiente quest’anno ha come tema il “Ripristino degli Ecosistemi”, danneggiati e compromessi da secoli di atteggiamento predatorio da parte del genere umano, che ha vissuto secondo il modello della crescita infinita in un sistema dalle risorse finite.

Dire che un sistema ha risorse finite non significa che queste siano destinate ad esaurirsi iesorabilmente, prima o poi, ma che bisogna calibrare l’uso delle risorse in modo che queste abbiano il tempo di rigenerarsi, in un processo circolare continuo, che regola appunto gli ecosistemi i equilibrio.

Di fronte alla contrapposizione tra consumo e risparmio delle risorse il termine corretto è proprio l’uso razionale di esse.

 

Nel deserto del Sahara ha senso risparmiare l’acqua… non la sabbia. Al contrario in una laguna ha senso risparmiare il terreno… non l’acqua. Lo stesso dicasi in un bosco rigoglioso, in cui ha senso risparmiare la radiazione solare…. non il legno.

In altre parole, se una risorsa è presente in abbondanza la posso utilizzare, a patto che mantenga l’equilibrio necessario a farla riprodurre nel tempo. Se invece è scarsa devo trovare alternative per non arrivare alla sua estinzione.

È quanto sta accadendo nei mari, a causa della pesca indiscriminata e spesso di frodo… nella foresta amazzonica per la deforestazione selvaggia, dovuta sia alla creazione di pascoli per gli allevamenti intensivi che al prelievo di legno pregiato. Ma è anche quello che accaduto per il petrolio, estraendo fino quasi all’esaurimento, in un paio di secoli o poco più tutto quello prodotto in milioni di anni dal nostro pianeta.

Molti pensano che tutto ciò sia inevitabile a causa dei fabbisogni crescenti di una popolazione mondiale in crescita esponenziale, che va nutrita e riscaldata garantendole condizioni di vita sempre migliori.

Appena si approfondisce però ci si accorge che non è proprio così e che la crescita demografica è un alibi dei grandi gruppi economici che mirano essenzialemnte al maggior profitto, creando sprechi e squilibri nella distribuzione delle risorse, con ulteriori ricadute in termini di rifiuti, inquinamento di aria suolo e acqua, conflitti sociali, malattie e crisi sanitarie, fino alle guerre!

Astenendoci dal giudizio politico sulle forme di organizzazione della società, dal socialismo al capitalismo al liberismo sfrenato, una cosa è certa: il modello è sbagliato, non funziona. I costi sono maggiori dei benefici.

Il modello di sviluppo dominante nel nostro unico pianeta può essere definito come un Ego-Sistema basato sul dominio egoistico del genere umano, che si pone al vertice della piramide del mondo animale e vegetale, per determinare con le sue scelte l’andamento della vita sulla Terra.

Il concetto di Eco-Sistema invece è ben diverso, basato com’è su un essere umano pari tra i pari, integrato con gli altri esseri viventi e in relazione armonica con essi, ciascuno con il proprio ruolo per lo sviluppo armonico della vita.

Ripristinare gli ecosistemi purtroppo non è cosa facile perchè il nostro pianeta, come ogni sistema complesso, ha un’inerzia intrinseca che richiede decine o centinaia di anni per ritornare all’equilibrio perduto. 

Il cambiamento climatico manifestatosi con l’innalzamento delle temperature medie, causa di una repentina accelerazione del processo di scioglimento dei ghiacci perenni, richiederà secoli per invertire la tendenza. Ammesso che si riesca a rallentare e poi fermare il processo con azioni efficaci che, per ora non si vedono. Di crisi climatica si parla sin dagli anni Cinquanta, al tempo del Club di Roma di Aurelio Peccei ma, in settant’anni non siamo stati capaci di fare nulla per evitarlo. Tutti gli impegni presi nei vari COP, a partire dal Protocollo di Kyoto, non solo sono stati insignificanti per la modesta entità, ma sono stati puntualmente disattesi dai governi in tutto il mondo, salvo poche rare eccezioni.

Ora che siamo ad un passo dal punto di non ritorno, secondo alcuni esperti superato già da anni, dobbiamo prendere atto del fatto che la politica dei piccoli passi non ha funzionato. Pertanto occorrono scelte radicali e immediate per rallentare il fenomeno nel breve periodo, arrestarlo nel medio e limitare i danni a lungo termine.

Sono le tesi finali dell’ultima edizione dei Colloqui di Dobbiaco, a cui ho partecipato apprezzandone come sempre l’altissima qualità del dibattito scientifico.

Ormai si ragiona solo in termini di adattamento e resilienza.

La situazione è tale che si profilano all’orizzonte alcuni rischi:

  • in prima istanza il rischio che la consapevolezza di non avere più tempo porti all’atteggiamento di abbandono della lotta, tipico di chi ormai è spacciato e non ha più nulla da perdere o da difendere;
  • in secondo luogo il rischio che la pandemia da COVID-19 assorba tutte le energie e il focus politico-economico-sociale, mettendo in secondo piano la crisi climatica, dimenticando paradossalmente che i due fenomeni sono strettamente connessi.

Sarà bene ribadire che la crisi climatica è la madre di tutte le crisi. Dai flussi migratori biblici a causa della desertificazione e salinizzazione delle acque, all’innalzamento dl livello dei mari, alla progressiva perdita della corrente del Golfo, alla morte di coralli e altre specie ittiche per l’innalzamento delle temperature degli oceani, all’aumento dell’inquinamento e degli impatti umani, sempre più ammassati in megalopoli, ormai metastasi urbane sfuggite ad ogni controllo, dal politico all’urbanista. Fenomeni questi ultimi che incrementano la crisi climatica in un circolo virtuoso che sta diventando sempre più pericoloso per la permanenza dell’uomo sul pianeta che, secondo alcuni esperti è vicino all’ennesima estinzione di massa, come quella che vide la fine dei dinosauri. Co una differenza sostanziale però: i dinosauri si estinsero per cause esogene, il meteorite, indipendenti dalla loro volontà… l’umanità invece si sta suicidando con le sue scelte sbagliate!

Abbandonando per un attimo la visione apocalittica, per assumere un atteggiamento più ottimista e fiducioso nel futuro basato sulla consapevolezza del problema, primo passo per la sua soluzione, domandiamoci cosa possiamo fare.

Innanzitutto è importante convenire sul fatto che ognuno di noi, nella sua vita quotidiana personale e professionale, può fare la sua parte e dare il suo contributo. Se si ragiona come coscienza collettiva, senza attribuire le responsabilità ad altri e senza abdicare al proprio dovere di singoli in relazione con il tutto, si possono ottenere importanti risultati in termini di miglioramento della situazione.

Innanzitutto occorre portare a termine rapidamente la transizione energetica dalle fonti fossili alle fonti rinnovabili. Se l’età della pietra non è finita perchè è finita la pietra non vedo perchè si debba aspettare che finisca il petrolio!

Secondo impegno fondamentale è la riduzione dei rifiuti attraverso la trasformazione dei processi produttivi da lineari a circolari, imitando la natura.

In terzo luogo occorre ridurre le filiere e accorciare le distanze della distribuzione delle merci, ripristinando il regionalismo e il localismo, che valorizzi le identità territoriali e le competenze specifiche.

Ancora, riscoprire forme di produzione agricola e zootecnica a basso impatto, abolendo le logiche industriali intensive, basate sul massiccio impiego di sostanze chimiche di sintesi, dannose per gli alimenti, per l’aria, le falde idriche e i suoli.

Rivedere il rapporto città/campagna, non più come modelli contrapposti a cui ricorrere a seconda delle congiunture: in epoca di boom economico tutti i città e i epoca COVID tutti in campagna o nei borghi rurali! Serve una maggiore osmosi tra le due realtà, con più campagna in città (orti di prossimità, forestazione, reti ecologiche…) e più città in campagna (trasporto pubblico locale, infrastruttura web, presidi sanitari, scuole…)

Smettiamola di confondere l’ambiente con il paesaggio. Si tratta di due categorie molto diverse, che hanno bisogno di essere integrate e non lasciate contrapposte per posizioni ideologiche, che non portano a nessun risultato.

Mi spiego con un esempio. Se dobbiamo incrementare la produzione di energia da fonte rinnovabile dobbiamo trovare il modo di integrare nel paesaggio le pale eoliche e/o i campi fotovoltaici. Farlo è una sfida a cui non possiamo rinunciare, passando dai divieti vincolistici alle aperture totali spesso dovute a vuoti normativi. Dobbiamo trovare il modo di salvaguardare il paesaggio migliorando l’ambiente. Pensiamo agli acquedotti romani che attraversano vallate e luoghi di grande valore paesaggistico e ne sono entrati a far parte.

Che occorra soltanto aspettare dei secoli? Ai posteri l’ardua sentenza!

Egidio Raimondi

Un mare di guai

Un mare di guai

Riflessioni su Seaspiracy, ultimo documentario di Netflix

di Egidio Raimondi

Viene presentato come un documentario sulla pesca ma riguarda l’intero ecosistema marino che, come tutti gli altri ecosistemi su questo pianeta, è in pericolo. Ancora una volta dobbiamo ammettere che la specie umana non conosce i concetti di equilibrio, di armonia, di efficienza, di sistema…

I sapiens, autodefinitisi così in modo egoista e presuntuoso, continuano da secoli a depredare le risorse finite di un pianeta finito, esaurendo le disponibilità annuali in meno della metà del tempo.

Anche quest’anno l’overshot day, il giorno in cui sono state consumate tutte le risorse che avrebbero dovuto essere consumate nell’intero anno, è arrivato a maggio! e ogni anno lo anticipiamo di qualche giorno…

Seaspiracy parte dalla pesca nelle sue forme più indiscriminate e aberranti per snocciolare una serie di numeri e dati, accompagnati da immagini strazianti e da interviste ai protagonisti del settore, per dimostrare quanto sia diventata insostenibile una delle pratiche vecchie quanto l’uomo, a causa dell’adozione del modello industriale e rapace per raggiungere profitti sempre maggiori.

“Un film gia visto” è il caso di dire, in cui si ritrovano atteggiamenti, mentalità, abitudini, indifferenze varie che ormai dominano la stragrande maggioranza del nostro pianeta. 

Tutto dominato dalle logiche di brevissimo periodo e nella completa assenza di visioni di ampio respiro e di lungo termine. Un qui e ora noncurante di chi ci seguirà tra qualche decennio, dimenticando che saranno i nostri figli e nipoti.

Dalla pesca che riduce la biodiversità all’inquinamento dei mari il passo è breve, fenomeni spesso legati e interconnessi.

Le microplastiche ormai sono dovunque, anche nel pesce che finisce sulla nostra tavola e quindi nel nostro corpo.

Le critiche, anche feroci, del mainstream non si sono fatte attendere concentrandosi sui dati forniti dagli autori, accusati di non averli verificati a sufficienza e di aver diffuso informazioni distorte o addirittura false.

Per me questa è la conferma del fatto che il lavoro ha raggiunto l’obiettivo: scuotere un sistema dannoso, che segue un modello sbagliato e mette a rischio la sopravvivenza degli oceani e della stessa specie umana..

Un sistema che teme l’attivismo indipendente, coraggioso ed efficace che cresce sempre di più ed è difficile da contenere con le logiche di sempre, fin qui risultate efficaci e che da qualche anno paiono scricchiolare, anche grazie alla pervasività della rete web

Oggi funziona sempre meno dipingere come estremisti pericolosi e anacronistici romantici i membri di organizzazioni come Greenpeace, Seashepherd, presente nel documentario, e altre realtà dell’attivismo ambientalista che sanno bene di dover accelerare la loro azione perchè non c’è più tempo!

La prima reazione alla visione del film è di pancia! si pensa subito di smettere di nutrirsi di pesce (e di microplastiche) come quando si vedono le immagini degli allevamenti intensivi e si pensa di diventare vegetariani.

Poi, come sempre accade, l’effetto si diluisce e viene sovrastato dai carichi della vita quotidiana e si ritorna alle solite abitudini. E allora serve un nuovo documentario come questo, o come Antropocene o The social dilemma che non ci ha certo fatto buttar via i telefoni cellulari!

Non sto dicendo che non servano lavori come quelli citati, anzi, sono degli scossoni, dei pugni nello stomaco che raggiungono il cuore delle persone. Ma non basta. Occorre mantenere viva l’attenzione tra un film e l’altro, tenere vivo il dibattito nel quotidiano perchè solo così si possono tradurre le emozioni in azioni concrete, nel quotidiano.

Solo l’azione costante di tutti noi può dare seguito e voce, diffusa e continua, agli urli rappresentati da lavori artistici e di inchiesta come Seaspiracy che rimangono fonte di ispirazione per le buone pratiche e scelte sui territori.

Ed è per  questo che come Fondazione Est Ovest non perdiamo occasione di riprendere i temi e reiterare i contenuti e gli stimoli tra le persone, raggiungendone il maggior numero possibile, invitandole a guardare il docufilm e condividere commenti, idee, proposte operative per arginare la deriva e riprendere il timone delle nostre barche, per una navigazione ancora lunga, sicura piacevole e che abbia un senso.

Egidio Raimondi, Socio

Il cielo in una stanza

Il cielo in una stanza

Abitare in ambienti sani ha un senso…anzi cinque!

di Egidio Raimondi

Da tanti anni ormai mi occupo di progettazione sostenibile, stili di vita sani e  strategie a basso impatto ambientale, con particolare attenzione agli ambienti confinati, chiusi, indoor che dir si voglia.

L’importanza di creare o rendere questi ambienti più sani, meno inquinati e dannosi per la salute umana, rispetto allo standard corrente risiede nel fatto che ci trascorriamo oltre l’80% del nostro tempo, quotidianamente!

Non si parla solo di casa infatti, ma di ufficio, fabbrica, scuola, cinema, teatro, palestra, discoteca, bar, ristorante, ambulatorio…

Ma come può una persona che non abbia particolari competenze tecniche e/o sensibilità distinguere un ambiente sano da uno insalubre, un materiale innocuo da uno tossico, una buona pratica da un comportamento impattante?

Cominciamo col dire che non è affatto cosa facile. 

Si tratta di liberarsi da decennali “incrostazioni”, che il potente marketing delle multinazionali del petrolio e della chimica di sintesi ci ha stratificato addosso, spacciandole come ritrovati miracolosi e soprattutto a buon mercato!

Paradossalmente oggi è provato che viviamo in ambienti che sono più inquinati e nocivi delle trafficate aree urbane e… non ne siamo consapevoli.

Basti pensare alle sostanze contenute, sotto forma di solventi, additivi, pigmenti, coloranti, reagenti, ecc… in vernici, collanti, sigillanti, impregnanti, cementi, malte, cere, finiture, resine… de cui oggi l’edilizia è letteralmente invasa!

Solo cinquant’anni fa i materiali dell’edilizia si contavano sulle dita delle  mani: mattoni, calce, cemento, legno, ferro, vetro, ceramica… Poi l’era del petrolio, con tutti i suoi derivati, e la chimica di sintesi hanno cominciato a sfornare molecole e polimeri dai laboratori delle multinazionali, disseminandoli capillarmente in ogni angolo del paese.
La logica che è passata è quella secondo cui chiunque, anche i meno esperti e meno pratici, potevano da allora diventare imbianchini, falegnami, fabbri, muratori…, imparando l’arte del fai da te, e applicando i prodotti “miracolosi” semplicemente leggendo e seguendo le istruzioni del produttore.

Risultato? incremento esponenziale delle patologie connesse ad inalazione di solventi e altre sostanze, o semplice esposizione, da parte degli operatori dell’edilizia e degli abitanti, riduzione della durata delle opere con invecchiamenti precoci dei manufatti, rifiuti speciali da smaltire a caro prezzo a fine vita utile! 

E così quello che sembrava a buon mercato ha presentato un salatissimo conto di costi indiretti, legati all’ambito sanitario, dei rifiuti e dell’ambiente in generale.

Per avere un’idea di quali pericoli si tratta vi invito a guardare il video che segue, in cui il professor Ernesto Burgio (ISDE – Medici per l’Ambiente) spiega alcuni degli effetti dell’inquinamento sull’uomo.

Ma allora che fare? Cosa può fare il cittadino medio per rimediare a questa situazione? Come può “salvare” se stesso e gli altri dai pericoli connessi agli ambienti insalubri?

Innanzitutto servono alcuni strumenti di base per poter “leggere” gli ambienti e capire se e come approfondire e, nel caso, intervenire per rimuovere o ridurre le criticità.

Fermo restando l’opportunità di rivolgersi a professionisti esperti, alcune piccole chiavi di lettura semplici, la riattivazione di sensibilità, una volta ancestrali ma ormai assopite, nozioni di base ed esempi di buone pratiche, possono essere un buon viatico per iniziare un percorso di crescita fisica e psichica, a vantaggio di tutta la comunità di riferimento.

L’incontro con la mia amica naturopata Simona Sottili (www.simonasottili.com) ha rafforzato in me la convinzione che questi temi andassero sdoganati dalle stanze dei tecnici e diffusi come antivirus di massa, tradotti in linguaggio semplice e arricchiti di esempi concreti.

Ma soprattutto, dalle nostre chiacchierate è emersa fortissima la necessità di riportare a una dimensione umana, e in armonia con la natura, tutto il tema dell’abitare e del vivere contemporaneo, riscoprendo vecchie sensibilità, abitudini e comportamenti.

Per far sì che tutto questo diventi realtà io e Simona abbiamo strutturato un’esperienza formativa (chiamarlo corso sarebbe riduttivo) di un fine settimana, in cui cercheremo di trasmettere questa sensibilità e fornire gli strumenti pratici per muoversi nel quotidiano e operare le proprie scelte con la necessaria consapevolezza e un minimo di competenza, quanto meno per porsi e porre le domande giuste all’ interlocutore di turno, in modo da ricevere le giuste risposte!

Egidio Raimondi, Green Your Mood!

Quando “isolarsi” conviene

Quando "isolarsi" conviene

Cosa sapere per scegliere il sistema di isolamento Termico più adatto

di Egidio Raimondi

Il caldo torrido di questi giorni porta alla ribalta della sensibilità di ciascuno di noi, esperto o profano che sia, il tema dell’adattamento alle nuove condizioni climatiche.

È ormai un dato certo che in futuro avremo un clima sempre più estremo, privo di quelle stagioni intermedie che consentivano di adattarsi al cambio delle temperature e al sopraggiungere delle piogge, e ricco di manifestazioni violente, come nubifragi e tempeste di calore, con evidenti ripercussioni sul delicato equilibrio idrogeologico del nostro bel Paese.

La cosa su cui vorrei porre l’attenzione con queste note è che, non è solo il genere umano che subisce pesanti disagi nell’adattarsi forzoso a cambiamenti così repentini e intensi, ma si tratta di un fenomeno che riguarda anche l’ambiente costruito.

Se consideriamo gli edifici e i loro agglomerati, dal piccolo borgo all’intera città, come organismi viventi interessati da fenomeni chimico-fisici nel loro relazionarsi con il contesto in cui si trovano, è facile comprendere come anche l’edilizia è chiamata a dare delle risposte ai cambiamenti climatici.

L’edilizia tradizionale prima e l’architettura di qualità dopo hanno prodotto edifici che tenevano in debita considerazione il contesto climatico tipico del sito in cui venivano pensati. La storia è ricca di esempi di edifici ben orientati, con studiate soluzioni di protezione o guadagno solare, corretta esposizione, giusto rapporto con i venti dominanti e astute strategie per l’uso razionale delle risorse disponibili (acqua, suolo, energia, biomassa vegetale, materiali locali, ecc…).

Ed è così che sono nati archetipi come il trullo nella murgia pugliese, il dammuso a Pantelleria, la colonica in tutt’Italia, le case a corte, ecc… ed elementi tipologici caratterizzanti il linguaggio architettonico, come gli aggetti di gronda, i portici, i bow-window, le logge…

Lasciando ad altre sedi o altri post tutto ciò che riguarda la forma degli edifici, ritengo urgente una riflessione sui materiali da usare per costruire quelle che, tecnicamente, vengono definite strutture di frontiera o di involucro. Quelle strutture cioè che delimitano verso l’esterno gli spazi in cui si svolge la vita e che, come tali, sono climatizzati con il riscaldamento in inverno e il raffrescamento in estate, generalmente con l’ausilio di appositi impianti tecnologici.

Mi spiego meglio.

Ogni ambiente in cui si vive, va mantenuto in certe condizioni minime di comfort, fissate per legge, affinchè sia considerato salubre e vivibile.

Ogni ambiente è delimitato da pareti perimetrali, un pavimento e un soffitto, che confinano con altri spazi, analogamente abitati o esterni. A seconda delle condizioni specifiche, verso l’esterno e verso altri spazi non climatizzati o diversamente climatizzati, si ha una dispersione di energia che viene compensata immettendo nell’ambiente altra energia prodotta da impianti.

Si tratta del bilancio energetico di un edificio: la somma algebrica tra la quantità di energia dispersa, attraverso muri, solai, finestre e altro che vi dirò più avanti, e quella immessa per guadagno solare dalle finestre, per apporti gratuiti interni dovuti alle persone e alle altre sorgenti di calore (elettrodomestici, macchine di vario tipo, sistemi di illuminazione, ecc…).
La differenza tra quella immessa e quella dispersa è quasi sempre a vantaggio di quella dispersa per cui occorre compensare questo gap immettendo energia che porti il bilancio energetico allo zero, al pareggio di bilancio, per continuare nella metafora economica. 

Questa energia, sotto forma di calore in inverno e di fresco in estate, viene prodotta utilizzando varie possibili fonti, da quelle fossili (gas metano, gasolio, olio combustibile,…) a quelle rinnovabili (solare termico e fotovoltaico, biomassa legnosa e vegetale, vento, idroelettrico, termodinamico,…)

A questo punto occorre fissare bene un concetto: l’energia più pulita e meno costosa è quella non consumata !

L’amico Maurizio Pallante, giornalista e divulgatore, autore di numerosi libri, articoli e interventi sui media, rimane colui che ha saputo trovare la metafora più comprensibile per la gente, per spiegare il concetto appena espresso.

Pallante parla di secchio bucato. E cioè, se immagino il mio edificio come un secchio con la superficie esterna piena di buchi, posso riempirlo di qualsiasi liquido (l’energia prodotta da qualunque tipo di fonte, rinnovabile o fossile) ma non risolvo il mio problema: disperderò sempre il mio liquido e sarò costretto a riempire continuamente il mio secchio/edificio.

Se invece tappo prima quei buchi e poi riempio il secco, ecco che l’energia immessa (il liquido con cui avrò riempito il secchio) rimarrà al suo interno e non sarà dispersa.

Tutto questo per dire che la parte più importante, su cui porre l’attenzione ed intervenire, è l’involucro dell’edificio, ancor prima degli impianti, fermo restando che l’approccio dovrà essere di sistema.

E’ del tutto evidente che va calibrato, per ogni intervento, il giusto rapporto tra l’efficienza dell’edificio e quella dell’impianto, ragionando in termini di quello che le norme definiscono “sistema edificio-impianto”.

Ma rimandiamo le considerazioni sull’impianto ad un post che ho  scritto qui qualche tempo fa (lo trovate qui) e ad altri che scriverò in futuro, per tornare ora  all’involucro.

Un involucro ben isolato, nel rispondere meglio alle variazioni di temperatura tra interno ed esterno, garantisce il mantenimento di condizioni stabili negli ambienti che racchiude.

Se ad esempio ho l’aria ambiente ad una temperatura di 20 °C e le pareti verso l’esterno (non isolate) a 16 °C, il mio corpo che ha una temperatura mediamente di 36 °C, cederà calore per irraggiamento verso quelle pareti fredde. Il risultato sarà una sensazione di disagio e un basso livello di comfort.

Se invece avrò le pareti isolate, la temperatura della loro superficie interna sarà più vicina a quella dell’aria ambiente, che abbiamo detto essere a 20 °C, e quindi il mio corpo non avrà scambi per irraggiamento con queste superfici, dato che le temperature avranno una distribuzione più omogenea e uniforme in ambiente.

Per isolare termicamente un muro esterno si possono usare diversi sistemi e materiali, da scegliere a seconda della situazione specifica, da posizionare sulla faccia esterna del muro, o su quella verso l’interno oppure in un’intercapedine intermedia se esistente.

Ai fini della conservazione dell’energia e del fenomeno sopra descritto, la posizione ottimale è sulla faccia esterna del muro, realizzando quello che si definisce comunemente come isolamento a cappotto.

Tale sistema presenta anche il vantaggio di non ridurre la superficie calpestabile degli ambienti e di non avere impatti con il normale uso degli spazi in fase di cantiere, che si svolge tutto all’esterno dell’edificio.

Quando non è possibile lavorare sull’esterno, perchè il muro ha decorazioni o modanature, perchè si insiste su spazio pubblico, perchè si va sotto le distanza minime da codice civile o semplicemente perchè non tutti i condòmini sono della stessa idea, si può isolare dall’interno.

In tal caso si riducono, seppur di poco, le superfici delle stanze (e bisogna fare attenzione a non andare sotto i minimi di legge) e si hanno in casa i disagi tipici del cantiere edile.

Ma soprattutto, se si isola dall’interno, si rimane tra soffitto e pavimento e non si “placcano” le dispersioni di energia attraverso tali strutture orizzontali. 

Quelli che si definiscono “ponti termici”.

Se invece si lavora con un cappotto esterno, questo passa sopra tutto e fascia completamente ogni parte della superficie esterna, con un effetto isolante molto superiore.

Molta edilizia degli anni Settanta e Ottanta presenta pareti di involucro composite, realizzate con un elemento esterno (generalmente laterizio pieno o semipieno a vista) un tavolato interno in laterizio forato e, tra questi, un’intercapedine d’aria, di spessore variabile tra i 5 e i 20 cm, generalmente. Spesso all’interno di tale intercapedine si trova già dell’isolante, in pannelli o materassino, ma spesso sono intercapedini vuote.
In questo caso, una soluzione molto interessante può essere quella di riempirle con materiale sfuso, insufflato meccanicamente, come sughero granulare o fiocchi di cellulosa o schiume espandenti a base di polimeri sintetici.
È giunto il momento di entrare un po’ più nel merito della natura di questi materiali isolanti, analizzandone le caratteristiche in termini di prestazioni e di impatto sull’ambiente.

Sostanzialmente tutti i materiali possono essere divisi in due grandi famiglie: quelli di origine naturale e quelli derivati da processi chimici di sintesi o dal ciclo del petrolio.

Quelli sintetici sono i più diffusi perchè più reperibili e a costi inferiori, prodotti da multinazionali, generalmente come cascame di altre lavorazioni, è il caso della raffinazione del petrolio, o da polimerizzazione di molecole termoplastiche in laboratorio.

Si ottengono così pannelli rigidi di poliuretano, polistirene, polistirolo ecc… di varie dimensioni, spessori e densità che, per la loro leggerezza sono facilmente trasportabili, maneggevoli e pratici.

Le prestazioni variano a seconda delle caratteristiche chimico-fisiche e sono generalmente molto buone nel ciclo invernale.

D’altro canto, non avendo una massa importante, sono piuttosto inefficaci in estate nel rallentare il flusso termico dall’esterno verso l’interno.

Ma la loro problematica più grave rimane la scarsa, pressoche nulla direi, traspirabilità. Sono praticamente impermeabili al passaggio del vapore acqueo contenuto nell’aria ambiente, il che favorisce il manifestarsi del fenomeno della condensa, vera e propria “piaga” dell’edilizia contemporanea che sia stata sottoposta ad un intervento di efficientamento energetico.

E qui veniamo ad uno degli aspetti basilari dell’edilizia sana di qualità: il concetto di terza pelle.

Per similitudine con la nostra prima pelle, l’epidermide, e la seconda pelle, gli abiti, l’edificio sano deve comportarsi come una terza pelle. Deve cioè essere in grado di favorire lo scambio osmotico del vapore acqueo attraverso le proprie microporosità, in modo da poterlo assorbire quando è in eccesso e cedere nuovamente all’ambiente quando l’aria diventa secca. In tal modo si mantiene costante il livello di umiditò nell’aria, ai livelli fissati per garantire il comfort igrotermico (dal 50 al 60 %).

Un edificio con un cappotto in materiale sintetico, in cui siano stati sostituiti anche i vecchi serramenti con modelli altamente performanti e a tenuta d’aria, è molto probabile che si manifesti il fenomeno delle muffe, superficiali o interstiziali. Questo accade quando, per una non corretta progettazione o esecuzione degli interventi, si hanno superfici non isolate, generalmente angoli o zone di raccordo tra diversi materiali o spessori, che essendo più fredde, provocano la condensazione su di esse del vapore acqueo, che passa dallo stato aeriforme a quello liquido.

Sulla superficie umida proliferano rapidamente le spore fungine che si trovano in sospensione nell’aria ambiente, dando luogo a muffe ed efflorescenze. Oltre all’effetto estetico sgradevole questo costituisce serio pericolo per la salute umana, generando una serie di patologie che vanno dalle semplici allergie a problemi respiratori e infezioni delle vie aeree e delle mucose.

Con un materiale di origine naturale, come il sughero, la fibra di legno   o di altre specie vegetali, la lana di pecora, ecc…questo non accade in virtù della loro alta traspirabilità e permeabilità al vapore acqueo che limita la migrazione in ambiente delle particelle d’acqua alla ricerca di superfici fredde su cui depositarsi che possano essere terreno di coltura delle muffe.

I materiali naturali che ho citato hanno prestazioni di isolamento termico inferiori rispetto ai materiali sintetici ma, avendo maggiore massa, sono molto più efficaci in estate, generando uno sfasamento dell’onda termica di oltre 12 ore, se ben dimensionati nello spessore.

Ciò vuol dire che prima che il calore estivo attraversi il muro di involucro, diventa notte, la temperatura esterna scende rapidamente e il flusso termico si inverte, tornando verso l’esterno.

Questo è quanto accade nell’edilizia tradizionale, i cui archetipi sono i trulli o i dammusi, ma la cosa stupefacente è ciò che recenti studi dell’Università di Palermo hanno dimostrato analizzando con sofisticati software di calcolo termotecnico in regime dinamico, alcuni dammusi di Pantelleria.

Ebbene lo spessore dei muri esterni dei dammusi analizzati garantisce uno sfasamento dell’onda termica esattamente corrispondente alle ore di irraggiamento solare del giorno di massima insolazione dell’anno. Il fatto straordinario è che questo è frutto del sapere empirico in tempi in cui i software non esistevano!

Bene, dopo questa digressione siciliana torniamo a noi per trattare i punti deboli dei materiali naturali.
Innanzitutto, avendo proprietà di isolamento inferiori rispetto ai loro cugini sintetici, necessitano di maggiori spessori per raggiungere le prestazioni imposte dalle vigenti norme.

A questo si aggiunga il maggior costo e la minore reperibilità sul mercato, in tutte le estensioni di gamma, e si ha la spiegazione della loro minore diffusione.

Tuttavia, la crescente sensibilità ambientale e la ricerca di una maggiore qualità in edilizia come elemento di distinzione in un mercato sempre più competitivo e ristretto, stanno aprendo nuove prospettive di sviluppo per questi materiali che hanno il vantaggio di avere un limitatissimo impatto, sia sull’ambiente che sulla salute umana, se posti in opera nel modo corretto.

Concludo qui questa prima introduzione al tema dell’isolamento termico, rimandando ad altri articoli il tema dell’isolamento acustico e alcuni approfondimenti sulle problematiche e le criticità della posa in opera e su un  materiale straordinario come la lana vergine di pecora.

Stay tuned…

Egidio Raimondi, Green Your Mood!

Come isolarsi davvero

Come “isolarsi” davvero

Come "isolarsi" davvero

I punti critici da considerare per avere un buon isolamento

di Egidio Raimondi

Nell’ultimo post ho fatto una carrellata introduttiva sul tema dell’isolamento termico degli edifici, considerando le varie tipologie possibili di materiali da utilizzare e le tecnologie più idonee, a seconda del risultato che si vuole ottenere.

Oggi voglio affrontare i punti critici di qualunque isolamento che, se non ben risolti, rischiano di vanificare gli effetti di tutta l’operazione e far buttare via i denari investiti, per non parlare di eventuali danni che possono insorgere a carico dell’edificio oggetto dell’intervento.

Il più importante e delicato, a mio avviso, rimane sempre il cosiddetto “foro muro”, cioè il perimetro di “confine” tra l’infisso esterno e la muratura in cui è inserito.

Il più importante e delicato, a mio avviso, rimane sempre il cosiddetto “foro muro”, cioè il perimetro di “confine” tra l’infisso esterno e la muratura in cui è inserito.

Qui si creano infatti, molto spesso, ponti termici dovuti a incomprensioni tra gli operatori o a scarsa consapevolezza del problema in termini di rapporto costo/beneficio.

Molto spesso infatti si sentono i rivenditori/installatori di serramenti chiedere al committente se vogliono il controtelaio o meno e, nella maggior parte dei casi, il committente sceglie di farne a meno per evitarne il costo.

Il problema è che il controtelaio non è stato concepito a caso ma, per l’appunto, per garantire la perfetta tenuta tra il serramento e il perimetro muraio dell’apertura in cui viene inserito. Una volta murato infatti garantisce un profilo regolare e dotato di apposite guarnizioni o altri sistemi che annullino ogni possibile discontinuità e quindi passaggio di aria che si porterebbe dietro anche il passaggio del calore, in uscita verso l’esterno in inverno, e viceversa in estate.

Se se ne fa a meno si ha un risparmio, che non è solo dovuto ad un componente in meno ma anche alla sua mancata installazione da parte della ditta incaricata della realizzazione delle opere murarie.

L’alternativa al controtelaio è spesso quella di usare schiume poliuretaniche ad espansione o nastri biadesivi, anch’essi espandenti in fase di installazione, che vadano a saturare ogni possibile spazio tra serramento e muratura.

Purtroppo però, questa seconda ipotesi non è sempre efficace, proprio per l’irregolarità della superficie muraria, lungo il perimetro del foro muro e quindi, spesso, non si risolve il problema illustrtao prima.

Il risultato è che si spendono migliaia di euro per serramenti a perfetta tenuta, con doppio o triplo vetro, con pellicola bassoemissiva, gas nobili nella intercapedine, guarnizioni multiple, i cui effetti sono miseramente vanificati dal fatto che tutt’intorno passa di tutto, non avendo sigillato il profilo perimetrale.

Il protocollo Casaclima tiene in grande considerazione questa tematica  tento da aver messo a punto un test di verifica specifico: il blower-door test. 

Consiste nel mettere in depressione l’immobile applicando una macchina che crea il vuoto ad una delle aperture dell’immobile. Quando gli ambienti sono alla pressione giusta si passa con una fiaccola o dei fumogeni sul perimetro di tutti i serramenti esterni e se si vede la fiamma o il fumo mossi da correnti d’aria si interviene a sigillare lo “spiffero”.

Per chi non aderisce al protocollo di certificazione Casaclima rimane la raccomnadazione di porre molta attenzione al tema e valutare bene se non sia il caso di spendere qualche denaro in più per non dover buttar via tutto l’investimento. 

Ancora una volta più che mai si tratta di spendere bene più che spendere poco!

Altro tema molto “scabroso” quando si deve ralizzare un cappotto esterno è proprio la qualità della superficie muraria su cui si andranno ad applicare i pannelli isolanti.

Innanzitutto occorre essere certi che lo strato di intonaco esistente sia ancora ben “aggrappato” alla muratura sottostante perchè è evidente che, se ci fisso sopra dei pannelli isolanti e questo subisce dei distacchi, mi si distaccano anche i pannelli. E’ opportuno quindi eseguire una accurata battitura della superficie intonacata e rimuovere le parti soggette a distacco, ripristinandole con intonaco nuovo, anche a toppe. In questo modo si potrà avere un piano sicuro su cui fissare il rivestimento a cappotto.

Altra situazione tipica è una superficie non perfettamente planare con varie scabrosità diffuse che possono rendere difficile la posa dell’isolante.

In questo caso si tratta di valutare l’entità di tali “rilievi” o lacune perchè potrebbero essere facilmente assorbiti dalla densità e dall’elasticità del materiale isolante.
Se si trattasse di fenomeni di entità importante occorrerà spicconare o raschiare via le escrescenze e, al contempo, rasare con apposito impasto le parti lacunose in modo da avere una sufficiente planarità atta a ricevere l’applicazione dell’isolante.

Una delle criticità più diffuse, e fonte di contenzioso, su questa materia è senz’altro la non sufficiente attenzione posta alle giunzioni tra elementi isolanti, soprattutto negli attacchi tra componenti verticali e tra questi e quelli orizzontali o inclinati.

Nei punti di contatto infatti vanno fatte le opportune sovrapposizioni e sigillature, che non lascino fessure e punti di discontinuità, attraverso i quali si possano avere dispersioni termiche.

È tipico infatti che proprio negli angoli, che rimangono freddi, vada a concentrarsi il vapor d’acqua in sospensione nell’aria ambiente e condensi allo stato liquido, favorendo l’insorgere di muffe e fenomeni simili, con effetti negativi non solo per l’estetica ma anche per la salute di chi in quegli ambienti ci vive.

Ultima criticità, ma non per importanza, le modalità di posa dell’isolamento termico che non sempre rispondono alle prescrizioni e alle specifiche fornite dal produttore che, per altro, investe molte risorse per la formazione delle maestranze specializzate.

Ogni sistema infatti ha le sue modalità applicative, che prevedono un numero preciso e una precisa disposizione dei fissaggi meccanici, un’idonea preparazione del sottofondo o del piano di posa, delle specifiche caratteristiche dei collanti da adottare e dei tempi da rispettare, affinche tutto sia realizzato al meglio e ne possa essere garantita la durata nel tempo oltre alle prestazioni termofisiche di progetto.

Dato che i primi interventi di coibentazione risalgono a una decina di anni fa, visto che le prime leggi sono del 2005 e del 2006, con modifiche e implementazioni ancora in corso, a livello regionale e nazionale in recepimento di direttive europee, si può fare un bilancio sulla bontà di quanto realizzato.

Non dispongo di dati ufficiali ma non sono poche le notizie di contenzioso tra committenti e imprese per distacchi di intere aree coibentate, per affioramento delle giunzioni e dei fissaggi, e per errori di realizzazione, che vengono facilmente evidenziati con una semplice termocamera.
Trovo che sia particolarmente importante limitare al minimo fisiologico le criticità sin qui descritte perchè purtroppo hanno un effetto boomerang molto dannoso per la diffusione di tali sistemi.
Occorre sempre di più che gli interventi di coibentazione siano considerati delle buone pratiche, necessariamente basate su un nuovo paradigma culturale, la cui diffusione appare più che mai urgente e improcrastinabile, alla luce delle emissioni che ogni giorno rilasciamo nella nostra atmosfera e che generano quei cambiamenti climatici i cui effetti devastanti e costosi, da tutti i punti di vista, sono sotto gli occhi di tutti.

Nel prossimo post farò alcune considerazioni generali sull’isolamento acustico, che è strettamente legata all’isolamento termico e direi che trova maggiore sensibilità presso la gente.

Stay tuned…

Egidio Raimondi, Green Your Mood!

impianto riscaldamento radiante cover

L’Impianto di Riscaldamento Radiante. Quale scegliere?

L'Impianto di Riscaldamento Radiante

Quale scegliere?

di Egidio Raimondi

Con qualche anno di ritardo rispetto all’Europa centro-settentrionale questa tipologia di impianti di riscaldamento comincia ad essere diffusa anche alle nostre latitudini, ma spesso presenta alcuni problemi dovuti anche alla scarsa conoscenza da parte dell’utenza. Con questo articolo cercherò di colmare la lacuna.

Partiamo da alcuni concetti base di fisica tecnica.

La trasmissione del calore avviene sempre dal corpo più caldo a quello più freddo e secondo tre modalità: conduzione, convezione, irraggiamento (lontano ricordo del liceo scientifico o di alcune facoltà universitarie). Nel caso di un impianto di riscaldamento il corpo più caldo è il corpo scaldante in ambiente (il termosifone per capirci) e il corpo più freddo è l’aria ambiente. Lo scambio avviene fino a quando si raggiunge un equilibrio tra le temperature dei due corpi o, nel caso del riscaldamento domestico, quando si raggiunge la temperatura impostata sul termostato (generalmente 20°C). Nello scambio coesistono tutte e tre le modalità di trasmissione del calore ma, a seconda del tipo di impianto scelto, una delle tre prevale sulle altre. E’ così che con un radiatore avrò una componente prevalentemente convettiva coadiuvata da una parte radiante mentre, con un ventilconvettore (detto anche fan-coil) avrò una netta prevalenza della parte convettiva e componenti trascurabili delle altre due. Con un riscaldamento radiante invece avrò la prevalenza della componente di irraggiamento, con quote irrilevanti delle altre due.

Ed ecco il principale vantaggio di questa tipologia di impianti. L’assenza di moti convettivi in ambiente (cioè il fatto che non si ha il movimento dell’aria che, calda, sale verso l’altro e, raffreddatasi, scende verso il basso) significa che non vengono distribuite e fatte circolare tutte quelle particelle che troviamo in sospensione nell’aria degli ambienti chiusi, e che possono entrare nel nostro corpo, per inalazione, ingestione o contatto (edificio malato? no grazie!). Polvere, pollini e particelle portate dall’esterno, capelli, particelle organiche da desquamazione della pelle, forfora, pelo di animali domestici, fumo di sigaretta, grassi ed emissioni dalla cottura dei cibi, emissioni dall’impiego di detersivi, solventi e altre sostanze contenute negli arredi, nelle pitture murali, nelle finiture del parquet, ecc…. (i cosiddetti VOC).

I moti convettivi in ambiente non si generano perché la temperatura della superficie radiante non può superare i 29°C (per normativa) e quindi non riesce a cambiare la densità, e quindi il peso, dell’aria facendola salire in alto e poi scendere verso il basso, ma la lascia inalterata e quindi stabile. Questo comporta una migliore distribuzione delle temperature, con maggiore comfort per le persone, e un risparmio energetico consistente perché si va a riscaldare solo il volume in cui vive la persona, lasciando al freddo i ragni!

La bassa temperatura della superficie radiante è la risposta alla principale obiezione che viene fatta a questo tipo di impianti, come “pericolosi” per l’apparato circolatorio delle gambe, memori delle esperienze fatte negli anni Sessanta e Settanta in cui però le temperature di mandata dell’acqua erano di 70°C (come quelle a cui lavorano i radiatori). Ma cosa è cambiato rispetto a quegli anni? L’innovazione è stata quella di mettere uno strato di isolante termico sotto le tubazioni in cui circola l’acqua calda, facendo in modo che l’impianto riscaldasse solo una unità immobiliare (attraverso il pavimento ad esempio) e non due unità come accadeva prima, quando i tubi erano affogati nella struttura del solaio che divideva due appartamenti (quello soprastante e quello sottostante).

Ma vediamo com’è fatto un impianto di riscaldamento radiante.

Tralasciando per un attimo la tipologia di caldaia che meglio si abbina ad esso, la caldaia a condensazione a cui dedicherò un post specifico, un impianto radiante è costituito, nella sua versione a pavimento, la più diffusa, da una rete di distribuzione del fluido vettore termico (acqua calda) disposta a serpentina, su uno strato di materiale isolante termico e affogata in un getto di calcestruzzo speciale. L’acqua calda che viene fatta circolare nelle serpentine riscalda il massetto in cemento che diventa il corpo scaldante dell’ambiente. Quindi, invece di un radiatore, tipicamente sotto la finestra, a scaldarmi la stanza ho tutta la superficie del pavimento. Questo mi permette di lavorare con temperature dell’acqua più basse, con conseguente risparmio di energia e minori emissioni in atmosfera.

Le serpentine sono fatte da circuiti unici, senza giunzioni, che partono e ritornano tutte da un collettore di distribuzione incassato a muro in una zona non visibile dell’unità immobiliare e, possibilmente, in posizione baricentrica rispetto ad essa. Il tubo che si stende per fare le serpentine è generalmente in materiale plastico (polietilene reticolato) ma può essere anche in rame (ha una maggiore conducibilità termica ma anche un maggior costo). L’isolante termico sotto la serpentina è generalmente polistirene ma può essere anche sughero o fibra di legno. Gli spessori dell’isolante e il diametro del tubo, oltre al “passo” (distanza tra i tubi della serpentina) è determinato dal calcolo termotecnico che tiene conto delle dispersioni dell’edificio, degli apporti gratuiti e delle temperature che si vogliono ottenere. Generalmente un impianto radiante ha una resa al mq di 80/100 Watt e quindi non è adatto ad edifici con troppe dispersioni termiche, a meno che non lo si integri con porzioni a parete o altri corpi scaldanti.

Un impianto radiante può essere a pavimento, a parete o a soffitto e la scelta dipende dalle specifiche contingenze. Ad esempio, se devo consolidare il solaio di calpestio e rifare i pavimenti posso prendere in considerazione la soluzione a pavimento. Se ho dei pavimenti di pregio posso valutare quella a soffitto, con l’avvertenza che, generalmente, le rese sono garantite fino ai 3,5 m di altezza. Se ho ambienti molto vasti posso fare dei tratti a parete per eliminare le dispersioni dai muri e migliorare il comfort in ambiente, grazie ad una idonea temperatura operante.

La temperatura operante è la grandezza di riferimento per valutare il comfort di un ambiente ed è ottenuta calcolando la media tra la temperatura dell’aria e le temperature degli elementi che delimitano l’ambiente (pareti, soffitto, pavimento, finestre ecc…) ponderate sulle rispettive superfici. Per capire meglio in concetto basti pensare che spesso ho 20°C in ambiente ma ho le pareti esterne che sono a 16°C e quindi il mio corpo tende a scambiare calore con esse, generando una sensazione di discomfort. Lo stesso può accadere con il pavimento freddo o le finestre, se non hanno il vetrocamera o il telaio a taglio termico…. Quanto più alta è la temperatura delle superfici che delimitano il mio ambiente tanto minori saranno i miei scambi termici con esse e tanto maggiore sarà il mio comfort. Con il riscaldamento radiante ho una migliore distribuzione delle temperature, oltre che nell’ambiente, anche sulle superfici che lo delimitano.

Un impianto radiante può climatizzare un ambiente in inverno (riscaldamento) e in estate (raffrescamento) facendo circolare nelle serpentine fluido caldo o freddo, con alcuni accorgimenti in estate dovuti alla necessità di deumidificare per evitare la formazione di condensa sulle tubazioni annegate nel massetto o nell’intonaco del soffitto.

Negli ultimi anni le aziende produttrici hanno sviluppato e immesso sul mercato soluzioni a basso spessore che possono essere installate su pavimenti esistenti (con spessori totali di ingombro fino a un minimo di 18 mm + il nuovo pavimento), sistemi a secco per interventi più rapidi, puliti e con minor carico sulle strutture esistenti, oltre a sistemi “prefabbricati” e modulari per installazioni a soffitto o a parete composti da pannelli sandwich che comprendono l’isolante, la serpentina e la finitura (cartongesso), da posare e collegare in serie mediante appositi connettori.

Un particolare riguardo meritano i sistemi capillari, che ultimamente stanno vivendo una grande espansione, perché lavorano con temperature di mandata molto basse (28°C per il riscaldamento e 18°C per il raffrescamento), con evidenti vantaggi in termini di efficienza energetica della centrale termica. Essendo prevalentemente a soffitto, affogati nello spessore dell’ intonaco (1,5 cm) e avendo una sezione ridotta dei tubi (2,5 mm di diametro) con un ridotto contenuto di acqua, raggiungono velocemente la temperatura di regime e possono essere anche condotti ad intermittenza anziché in continuo.

Questo riduce la principale criticità di questi sistemi, dovuta al gap “culturale” dell’utenza e alla non sufficiente e corretta informazione da parte degli operatori del settore. Abituate infatti ad accendere il riscaldamento in alcune ore della giornata e tenerlo spento in altre (conduzione intermittente) le persone hanno difficoltà ad accettare il fatto che un impianto radiante debba restare sempre “acceso” perché lavora sull’inerzia del cassetto che deve rimanere caldo e, se si raffredda, necessita di molte ore per tornare alla temperatura di regime. In realtà, una volta portato il massetto alla temperatura di progetto, l’impianto si spegne per riaccendersi appena il cassetto parie qualche grado e riportarlo in temperatura in pochi minuti. Quindi è un sistema efficiente con bassi consumi ma in contraddizione apparente con il fatto che “resta sempre acceso”. Il risultato è che gli utenti, se non bene educati a questo sistema, agiscono continuamente sui termostati ambiente per abbassare o alzare le temperature (nei termostati digitali indicate anche con i decimali di °C) mandando in crisi il sistema di regolazione e ottenendo il malfunzionamento dell’impianto che, avendo un’elevata inerzia termica, ha tempi di reazione lenti che non corrispondono alle aspettative degli utenti, abituati prevalentemente ai sistemi a radiatori. Il risultato? chiamano l’architetto che gli ha consigliato questo sistema innovativo, che però “non funziona”!!

Pertanto, il consiglio più grande che mi sento di dare, a difesa della categoria, è quello di documentarsi al meglio prima di scegliere un sistema radiante, che è comunque il migliore in termini di efficienza e comfort, e di affidarsi al professionista e alle ditte produttrici e installatrici giuste, che sappiano valutare la compatibilità con il tipo di edificio e la tipologia di lavori prevista, progettando il migliore impianto possibile per la specifica situazione. Diffidare di chi propone ricette preconfezionate e standard perché sono ad alto rischio di insuccesso, soprattutto per gli interventi in edifici esistenti.

Egidio Raimondi, Green Your Mood!

Il Fotovoltaico che sarà

Il Fotovoltaico che sarà

Il Fotovoltaico che sarà

Considerazioni su una tecnologia che sembra esaurita ma ha ancora tanto sviluppo davanti

- terza parte -

di Egidio Raimondi

Con questo ultimo post chiudo la trilogia di articoli sulla tecnologia fotovoltaica per la produzione di energia elettrica.

Dopo aver descritto lo stato dell’arte nel presente e parlato del passato, con alcuni cenni storici, vi parlo del futuro di questa tecnologia che appare molto roseo anzi…direi azzurro!

Una prima considerazione da fare riguarda la scala disciplinare in cui è stato affrontato e sviluppato il tema del fotovoltaico.

L’inizio lo si deve agli scienziati che, scoperto il fenomeno fisico, hanno svolto le ricerche e gli approfondimenti necessari a rendere la tecnologia disponibile per le applicazioni pratiche. Hanno percorso cioè tutto lo spazio che serve per portare a termine la ricerca pura, con adeguati risultati, per poi passare alla ricerca applicata, con le sperimentazioni sul campo e le implementazioni e correttivi, fino agli affinamenti che hanno portato a rendere la tecnologia matura, compresa la competitività sul mercato del consumatore finale.

Dopo gli scienziati è stata la volta degli ingegneri che si sono preoccupati di dare forma e consistenza ai componenti da utilizzare per produrre energia con sistemi affidabili, semplici da produrre e da installare, garantiti nel tempo alle usure di ogni genere.

Sono nati così i moduli, gli inverter, le strutture di supporto per i vari utilizzi, i materiali più performanti, i kit di assemblaggio, i dispositivi di sicurezza, la modularità dimensionale, le tipologie (rigide, flessibili, semirigide, vetro/vetro…), le tipologie di connessione, i moduli monoinverter.

Poi è arrivato il turno degli architetti che sono stati chiamati, perfino dallo stesso decreto legge, a lavorare sull’integrazione dei moduli  nell’edificio o nel paesaggio.

Sono nati allora i moduli con le celle colorate, prevalentemente di rosso per l’integrazione con i tetti in laterizio, o di verde per l’integrazione paesaggistica.

Sono stati pensati impieghi in verticale, come rivestimento di edifici in facciata continua, anche ventilata. Sono nate forme architettoniche che nascevano proprio dalla disposizione, orientamento e inclinazione dei moduli (ad es. le plus energie haus nel quartiere di Vauban a Friburgo.

Sono nate le serre fotovoltaiche con esempi molto riusciti come l’atrio distributivo dell’ospedale pediatrico Meyer a Firenze o alcune soluzioni del quartiere Bed Zed (Beddington Zero Emission DIstrict) a Londra.

Tuttavia, a mio parere, non è ancora stato fatto il salto di qualità che la tecnologia meriterebbe, nel senso che tutti i tentativi di integrazione sono stati realizzati sempre impiegando il modulo. Non è stato mai messo in discussione il componente standard, salvo alcuni rarissimi esempi, molto particolari, in cui si è lavorato sulla cella e non sul modulo.

Considerare la cella alla stregua di un pixel è un passaggio rapido e semplice ma richiede grandi superfici a disposizione, meglio se vetrate in modo da ottenere suggestivi effetti di captazione e schermatura della radiazione solare.

Insomma, credo che sia giunto il momento dei designer di cimentarsi con questi sistemi per innovare davvero una tecnologia che, dal punto di vista estetico, vive una certa stagnazione creativa. Quando dico designer mi riferisco a coloro che si occupano di disegno industriale e non ai “fenomeni” del gesto che creano progetti one shot disegnando con un pennarello una nuvola ricalcando su parabrezza dell’auto quella che vedono guidando (ricorderete un famoso spot pubblicitario di qualche anno fa…)

C’è un altro filone di ricerca e approfondimento su cui lavorare per innovare la tecnologia fotovoltaica ed è quello del materiale stesso.

In particolare si sta lavorando da anni su componenti a matrice organica, sotto forma di gel o film, che consentono di superare il limite morfologico e dimensionale della cella.

Si tratta di materia semitrasparente o traslucida (più aumenta la trasparenza minore è la resa in conversione dell’energia solare in elettrica) interposta tra due lastre di materiale trasparente, vetro o policarbonato, per realizzare superfici piane di varie dimensioni, ma uniformi e non scandite dal ritmo della singola cella.

Se al materiale esterno, di contenimento del gel fotovoltaico, in lastra rigida si sostituisce un materiale flessibile come il PVC o altro polimero ecco che si ottiene un elemento fotovoltaico flessibile che supera il colore nerobluastro del silicio amorfo.

I materiali organici hanno anche l’ulteriore vantaggio di essere più facilmente reperibili, meno costosi del silicio, migliori da smaltire a fine vita. Insomma più sostenibili dei materiali attualmente impiegati.

Le prime sperimentazioni sono state fatte con la polpa di mirtillo e altri frutti o con alghe, fino a giungere alle più recenti celle a sensibilizzatore organico o DSSC (Dye-Sensitized Solar Cell).

Chiamato anche fotovoltaico di terza generazione, appartiene alla famiglia dei sistemi a film sottile ed offre risultati interessanti, come documentato da un ricerca dell’Università di Siena, i cui membri del team affermano che «Tra le celle solari più innovative, le tecnologie DSSC rappresentano un’alternativa percorribile rispetto ai sistemi tradizionali, sia per vantaggio economico sia per metodologie costruttive eco-friendly, che permettono un migliore riciclo degli elementi, con minore impatto ambientale».

Da una valutazione comparativa con altre tecnologie fotovoltaiche, condotta dal team senese, si deduce che «le caratteristiche strutturali e di funzionamento rendano le DSSC più vantaggiose sia per minori costi di smaltimento che per un ridotto impatto ambientale».

Le celle DSSC, note anche come celle di Graetzel, dal nome del ricercatore che le creò nel 1991, riproducono il principio della fotosintesi che avviene nelle cellule degli organismi vegetali.

Una cella è costituita  da due vetri conduttori separati da uno strato poroso di biossido di titanio, un materiale semiconduttore che viene impregnato di colorante naturale, e da una soluzione elettrolitica. I vetri fungono da fotoanodo e fotocatodo, mentre il colorante trasferisce elettroni al biossido di titanio in seguito all’assorbimento di fotoni, dando origine ad una coppia lacuna-elettrone, similmente a quanto avviene nei  dispositivi a semiconduttore; l’elettrolita, invece, serve per rendere continuo il processo di scambio di elettroni, generando, quindi, una corrente elettrica. Le celle assumono vari colori diversi (dal rosso all’arancio, dal giallo al verde) a seconda delle sostanze organiche utilizzate: tra le più usate abbiamo le antocianine, estratte dal succo di more o lamponi.

Le rese sono ancora basse ma il risultato estetico è davvero interessante.

Tra gli impieghi più recenti possiamo citare il padiglione dell’Austria all’Expo di Milano: una facciata del padiglione di 90 m2 era realizzata con celle capaci di produrre circa 24 kWh al giorno di energia.

Ma l’impiego a più vasta scala e dall’effetto più riuscito è senz’altro La facciata ovest del SwissTech Convention Center nel campus dell’école polytechnique federale di Losanna.  Una parete di 300 m2 di vetro trasparente e colorato in cui la luce solare che entra crea giochi di luce sorprendenti all’interno della sala. Costituita da 1400 moduli solari di dimensioni 35 x 50 cm, oltre a schermare in parte gli ambienti interni dalla luce solare produce circa 2000 kWh di energia all’anno!

Per chiunque fosse interessato a saperne di più l’invito è sempre a scrivermi qui sotto nei commenti o direttamente alla e-mail egidio@egidioraimondi.com

Buon fotovoltaico a colori a tutti!

Egidio Raimondi, Green Your Mood!

Il Fotovoltaico questo sconosciuto

Il Fotovoltaico questo sconosciuto

Considerazioni su una tecnologia che sembra esaurita ma ha ancora tanto sviluppo davanti

- seconda parte -

di Egidio Raimondi

Nel mio ultimo articolo ho tracciato l’evoluzione del fotovoltaico in Italia negli ultimi 15 anni, dalle prime campagne di incentivazione ad oggi. Ma cos’è di preciso un impianto fotovoltaico? Come funziona? Cercherò di spiegarlo senza usare un linguaggio troppo “tecnico”.

La tecnologia basata sul solare fotovoltaico rientra tra quelle per la produzione di energia da fonti classificabili come rinnovabili. Per rinnovabile si intende una fonte che si rigenera e si considera non esauribile nella scala dei tempi “umani”. E’ che chiaro che se un giorno dovesse “esaurirsi” il sole, diciamo che quello della produzione di energia non sarebbe più il problema prioritario.

A questo proposito mi piace citare la frase di un amico, Marco Matteini, da sempre impegnato nel settore delle energie rinnovabili, che ad un convegno in cui si contrapponevano le ideologie rinnovabile/nucleare, ebbe a dire che “il sole è una enorme centrale nucleare ma… a distanza di sicurezza!”

Ma torniamo al fotovoltaico.

Si tratta di una tecnologia che affonda le sue radici nella metà del XIX secolo quando, nel 1839 Becquerel scoprì il fenomeno fisico.

Anche Albert Einstein spiego l’effetto fotovoltaico nel 1905 e, dagli anni Trenta del Novecento, i misuratori di luce per apparecchi fotografici impiegano comunemente celle fotovoltaiche a ossido di rame o selenio.

Nel 1954 i laboratori Bell sviluppano la prima cella a silicio cristallino (più avanti vedremo di cosa si tratta) e nel 1958 un satellite spaziale USA impiega celle fotovoltaiche con risultati ben oltre le aspettative.

Dalla metà degli anni Settanta del Novecento, con le prime crisi petrolifere mondiali, si investono ingenti risorse nella ricerca e sviluppo della tecnologia fotovoltaica giungendo, nel 1976, alla produzione della prima cella in silicio amorfo (anche questo lo spiegheremo più tardi).

Dagli anni Ottanta del Novecento in poi la ricerca fa progressi notevoli aumentando i rendimenti, fino ad allora piuttosto bassi, e lavorando su materiali sempre più innovativi, performanti e sostenibili, oltre che sull’aspetto dell’integrazione estetica dei moduli nell’ambiente naturale e costruito.

L’effetto fotovoltaico è basato sulla conversione dell’energia fotonica (luminosa) in energia elettrica, invertendo quanto accaduto sino ad allora, quando con un filo elettrico si accendeva una lampadina!

Semplificazione ardita a parte, la tecnologia fotovoltaica si basa su due diverse tipologie, legate al materiale impiegato:

  • il silicio amorfo
  • il silicio cristallino che, a sua volta, si divide in: monocristallino e policristallino

Nel silicio amorfo gli atomi di silicio vengono deposti chimicamente in forma amorfa, ovvero secondo una struttura non organizzata, sul suo supporto. Le quantità di silicio utilizzate sono molto esigue (nell’ordine del micron) e quindi i supporti sono flessibili e leggeri, facilmente adattabili a qualsiasi forma, anche curva. Tipicamente si tratta di fogli in PVC semirigido che consentono una più facile integrazione con la parte in cui vengono installati e “lavorano” con buone performance anche sulla componente riflessa della radiazione luminosa, pur mantenendo rendimenti piuttosto bassi. L’aspetto a vista è di strisce grigiobluastre, larghe fino a 50 cm e lunghe vari metri, che possono essere arrotolate e poi connesse in serie tra loro. I rendimenti sono piuttosto contenuti ed è meno stabile del cristallino.

Nel silicio monocristallino si parla di celle (generalmente quadrate con un lato dell’ordine dei 12 cm) e ogni cella è realizzata a partire da un wafer la cui struttura cristallina è omogenea (monocristallo). Le celle sono giuntate tra loro da collegamenti ad alta conducibilità elettrica. L’aspetto visivo è quello di pannelli (moduli) in cui le celle sono contenute tra un supporto inferiore in materiale plastico e uno superiore in vetro, di colore nerobluastro uniforme, e dimensioni standard di cm 100 x 160. I rendimenti sono i più alti (fino al 25%) ed è una tecnologia ormai matura.

Il silicio policristallino è simile al precedente con l’unica differenza che il wafer di partenza non è strutturalmente omogeneo ma organizzato in grani localmente ordinati. L’aspetto visivo è simile al precedente ma con colore più tendente all’azzurro e la tipica tessitura a chip di varia pezzatura. Le dimensioni sono sempre standard come quelle del monocristallino. Ha rendimenti più bassi del monocristallino ed essendo “variegato” è più difficile da integrare.

Dal punto di vista della sostenibilità ambientale, i vantaggi del fotovoltaico sono molteplici:

  • Non ha emissioni climalteranti in atmosfera, nelle acque e nel suolo;
  • non prevede emissioni acustiche nè parti in movimento o fluidi in circolo;
  • ha un impatto visivo generalmente ridotto;
  • non prevede trasporto di combustibile, né produzione di scorie;
  • promuove la produzione energetica locale riducendo il trasporto in rete;
  • per ogni kWh di energia elettrica prodotta da fotovoltaico si evita l’emissione di circa 500 grammi di CO2 in atmosfera;
  • i tempi di payback energetico per la produzione dei moduli variano dai 3-6 anni per il silicio policristallino agli 8-10 anni per il silicio monocristallino, agli 1-2 anni per il silicio amorfo in film sottile.

Il mercato del fotovoltaico è destinato ad avere ancora un grande sviluppo, anche nel nostro Paese, soprattutto se lo si orienta su quelle aree a scarso valore paesaggistico ambientale come le zone industriali e le periferie urbane.

Dal punto di vista economico la tecnologia può ormai definirsi matura ma dal punto di vista dell’inserimento nel contesto e dell’integrazione con l’edilizia esistono ancora ampi margini di miglioramento e la ricerca produce continui sviluppi che poi vengono trasferiti sul mercato.

Un esempio molto interessante è rappresentato dal vetro fotovoltaico, con vari livelli di trasparenza e sfumature cromatiche, anche in versione calpestabile, che consente di esprimersi con grande libertà creativa su grandi superfici, pur mantenendo ancora livelli di costo decisamente superiori rispetto alla tecnologia standard, accompagnati da minori rendimenti. Tuttavia il mio consiglio è di tenere d’occhio le evoluzioni del prossimo futuro.

Ma oggi conviene o no installare un impianto fotovoltaico?  e se sì come deve essere dimensionato? a cosa bisogna fare attenzione?

Il primo dato di fatto da tener presente è che oggi non sono più necessari gli incentivi perchè il fotovoltaico ha raggiunto prezzi più che abbordabili e il costo iniziale di installazione può essere ammortizzato con il risparmio in bolletta.

Resta tuttavia valida la possibilità di accedere alle detrazioni IRPEF per le ristrutturazioni, per i privati, e la possibilità di considerare l’impianto come bene ammortizzabile, per le imprese.

Il secondo dato di fatto è che lo scambio sul posto è diventato meno “conveniente” rispetto ai tempi d’oro poiché l’energia immessa in rete viene remunerata poco e quindi conviene utilizzare il più possibile l’energia prodotta dall’impianto fotovoltaico.

Per fare questo ci sono due modi:

  • Dimensionare l’impianto in modo che l’energia prodotta di giorno venga utilizzata nelle stesse ore, in modo da ridurre le quantità di energia prelevate dalla rete. QUesto rende molto adatti tali sistemi per gli uffici e le attività produttive, che hanno consumi di energia prevalentemente diurni, e impone un cambio di abitudini e stili di vita per i privati che, tendenzialmente, avrebbero maggiori consumi nelle ore serali e notturne. Si tratterebbe in tal caso di programmare lavatrici, lavapiatti, usi domestici vari il più possibile nelle ore diurne.
  • Dotare l’impianto di sistemi di accumulo (batterie) che stanno raggiungendo livelli qualitativi sempre maggiori e a costi accessibili, contrariamente a quello che accadeva agli albori della tecnologia, quando erano costosi e rapidamente deteriorabili con conseguenti problemi di smaltimento come rifiuti speciali, a fine vita.

Quindi, riassumendo, è fondamentale rivolgersi ad un progettista che possa dimensionare correttamente l’impianto sulla base del profilo di utenza dell’edificio a servizio del quale andrà realizzato, diffidando di quelle soluzioni preconfezionate, spesso presentate dalle aziende come Kit da montare rapidamente, poichè potrebbero non rivelarsi le più adatte.

Come dico sempre, anche in questo caso, non esistono ricette preconfezionate ma ogni caso va analizzato e affrontato singolarmente e nello specifico.

Altri accorgimenti da adottare nella realizzazione di un impianto fotovoltaico sono:

  • Fare attenzione ad eventuali ostruzioni che potrebbero mettere in ombra i moduli, spesso sottovalutate, come comignoli, alberi anche lontani che nelle ore in cui il sole è basso potrebbero essere un problema, antenne, tende da sole, ecc…..
  • Avere cura che i moduli abbiano una adeguata ventilazione e non siano soggetti a surriscaldamento perché, in tal caso, avrebbero importanti perdite di rendimento.
  • Posizionare l’inverter, che trasforma la corrente continua prodotta dai moduli in corrente alternata (quella che abbiamo nell’impianto elettrico interno) in posizione non troppo lontana dai moduli poiché le dispersioni sono maggiori in corrente continua che in alternata.
  • Collegare in serie i moduli considerando che se ne viene ombreggiato uno si ferma la produzione di tutta la serie e che se uno di essi è attestato verso un rendimento più basso, abbassa a quel livello anche i rendimenti di tutti gli altri della serie.
  • Prevedere la possibilità di lavare i moduli periodicamente poiché la polvere riduce il rendimento.

In altre parole, un impianto fotovoltaico è riuscito se se ne garantisce il corretto funzionamento nel tempo (almeno 20 anni) e quindi meglio spendere qualcosa in più all’inizio, considerandolo un investimento che trovarsi ad avere malfunzionamenti e/o bassi rendimenti nel tempo.

Tutto ciò ferma restando l’opportunità di avere adeguate garanzie che oggi le aziende più importanti offrono sul prodotto (da 2 a 5 fino a 10 anni) e sul rendimento (per legge non meno del 90% nei primi 10 anni di esercizio e non meno dell’80% nei successivi 10, generalmente aumentati per la maggiorparte delle aziende sul mercato.)

A questo molte aziende aggiungono coperture assicurative aggiuntive che rendono più sicuro e affidabile l’investimento.

Concludo dicendo che installare prodotti di alta gamma consente di avere idonee garanzie di prestazione e di affidabilità che fanno dormire tranquilli e rientrare dell’investimento nei tempi previsti, al contrario di quello che accade con impianti più “economici” all’inizio che però comportano maggiori rischi nell’arco del ciclo di vita utile.

Senza mai dimenticare che il costo dell’energia di rete sarà sempre più alto, del resto non è mai diminuito ma è da sempre in costante ascesa, e quindi i risparmi in bolletta sono progressivi, con una riduzione dei tempi di ammortamento rispetto a quelli previsti in fase di studio di fattibilità tecnico-economica.

Per chiunque fosse interessato a saperne di più e magari valutare l’opportunità di installare un impianto fotovoltaico per la propria casa o il proprio edificio “lavorativo”, sono a disposizione. Potete scrivermi qui sotto nei commenti o direttamente alla e-mail: egidio@egidioraimondi.com

Buona energia pulita a tutti!

Egidio Raimondi, Green Your Mood!

fotovoltaico bruciato

Il Fotovoltaico è “bruciato”?

Il Fotovoltaico è “bruciato”?

Considerazioni su una tecnologia che sembra esaurita ma ha ancora tanto sviluppo davanti

di Egidio Raimondi

La stagione del fotovoltaico in Italia ha inizio nei primi anni Duemila con la campagna di incentivazione dello Stato, chiamata Diecimila tetti fotovoltaici, avviata nel 2001 dal Ministero dell’Ambiente. Poiché i costi erano molto elevati (7.500,00 € per ogni Kilowatt installato) lo Stato finanziava, a fondo perduto, il 75% dell’investimento, per una potenza massima ammissibile calcolata sui consumi degli ultimi tre anni.
L’incentivo era limitato agli impianti di piccola taglia, fino a 20 Kilowatt di potenza, ed era concesso a chi, presentata la domanda e ottenutane l’approvazione, realizzasse l’impianto in un termine prestabilito.
La misura ebbe un successo relativo dato che si trattava della prima iniziativa del genere in Italia, mentre in Germania avevano già lo strumento che poi arriverà da noi nel 2007, il Conto Energia.

La differenza tra i due sistemi è sostanziale.:

Con il metodo all’italiana lo Stato eroga tanto denaro ma il cittadino non può realizzare un impianto della dimensione che desidera, deve calibrarlo sui suoi consumi.

Con il metodo alla tedesca lo Stato non finanzia l’impianto ma premia il cittadino in base alla quantità di energia pulita che produce e quindi non da limiti alla dimensione dell’impianto, che può diventare anche strumento di un’attività imprenditoriale.

Con l’interesse dello Stato per il fotovoltaico cominciano a nascere in Italia diverse aziende che vedono possibilità di business nella tecnologia innovativa, soprattutto in virtù della promessa che anche noi avremmo adottato il modello tedesco.

Ma, come spesso accade nel nostro Paese, le legge rimane ferma all’allora Ministero del Tesoro per stabilire le tariffe incentivanti, cioè quanto sarebbe stata pagata l’energia al cittadino che l’avrebbe prodotta con tecnologia fotovoltaica. Nell’attesa molte aziende, che inizialmente stentano producendo solo per i mercati esteri, chiudono i battenti e nel 2007, quando la legge diventa operante, la maggior parte del mercato è una prateria appannaggio delle aziende e degli investitori esteri.

Infatti il Decreto denominato Conto Energia rende l’Italia il Paese più incentivante in materia di fotovoltaico e, fino al 2012, anno in cui verrà definitivamente abolito ogni incentivo, imprenditori, fondi di investimento di varia natura e speculatori d’assalto, invadono letteralmente il nostro territorio con l’intento di dipingere di blu le nostre colline e… in alcuni casi ci riescono!

È un vero peccato perché l’intento del legislatore era diverso, e lo si evince chiaramente guardando le tariffe incentivanti che, secondo una matrice a nove fattori, premiava molto di più chi realizzava un impianto di piccola taglia  (entro i 3 Kilowatt) e integrato architettonicamente rispetto a chi ne realizzava uno di grandi dimensioni (oltre 20 Kilowatt) e non integrato, come nel caso dei famigerati campi fotovoltaici.

Il meccanismo era semplice, e molto diverso dal precedente. In pratica lo Stato pagava l’energia prodotta da fotovoltaico molto di più di quanto il cittadino pagava l’energia presa dalla rete, e questo con due voci finanziarie a vantaggio del cittadino. Innanzitutto pagava un tot a Kilowattora prodotto dall’impianto, indipendentemente dal fatto che il cittadino lo avesse utilizzato direttamente o immesso in rete. Poi c’era il mancato prelievo di energia dalla rete perché il cittadino utilizzava quella che si produceva con il suo impianto, il cosiddetto autoconsumo. Il tutto era regolato da un regime detto di scambio sul posto per cui la bolletta elettrica era un conguaglio tra l’energia prelevata dalla rete (tipicamente per gli usi serali e notturni) e quella immessa durante il giorno (nelle ore di produzione).

La possibilità di effettuare lo scambio sul posto è stata la vera innovazione che ha dato impulso al fotovoltaico, avendo reso inutile lo stoccaggio con sistemi a batteria, costosi e poco affidabili nelle rese a lungo termine. Il legislatore cercava di promuovere la microgenerazione diffusa piuttosto che i grandi impianti di tipo industriale, e aveva ragione perché in questo modo si sarebbe creata quella cultura diffusa capillarmente per la produzione di energia pulita e non si sarebbero avuti impatti paesaggistici, pericolosi per un contesto delicato come il nostro.

Inoltre la microgenerazione diffusa non necessita di opere di adeguamento della rete di distribuzione esistente che, come è noto, è concepita ad albero, con tratti che partono dalle centrali e trasportano energia ad alta tensione, poi si riducono per trasportare la media tensione fino a giungere negli edifici di ciascuno di noi in bassa tensione, disponibile per gli usi finali.

Nel caso dei grandi impianti invece, molto spesso andava adeguata la rete di distribuzione che non era idonea a ricevere grosse quantità di energia dal ramo più piccolo verso il ramo più grosso!

Tuttavia, rendimenti finanziari intorno al 10-12% di un investimento, garantito dallo Stato e dal…Sole, hanno avuto un grande appeal per operatori finanziari che li paragonavano ai rendimenti ad alto rischio della Borsa o a quelli a lungo termine del mattone. E così abbiamo subito una vera e propria invasione da parte di player esteri, rallentata solo dalla nostra ipertrofica burocrazia che, in molti casi, ha dissuaso anche i più agguerriti!

Un fenomeno molto particolare che si è delineato, soprattutto nelle campagne del Sud, è stato quello di tentare di convincere gli agricoltori a cedere in locazione terreni a società che vi avrebbero realizzato impianti, godendo degli incentivi per il perido ventennale previsto dalla legge, e vendendo anche l’energia prodotta, salvo cederne una quota all’azienda agricola stessa. Si sono venute a creare numerose situazioni in cui un agricoltore veniva a guadagnare decine di migliaia di euro all’anno senza nemmeno alzarsi la mattina per andare nei campi!

Le Amministrazioni locali sono corse ai ripari, per tutelare il paesaggio ma anche il tessuto socio-economico dei territori, ma con i loro tempi dilatati, approvando piani energetici regionali, piani paesaggistici e norme di salvaguardia.

Un fenomeno analogo, che non ha avuto bisogno di essere arginato, si è verificato nelle aree industriali, in cui molti capannoni sono stati letteralmente coperti da moduli fotovoltaici. Qui l’unico ostacolo è stata l’insicurezza degli imprenditori, troppo incerti del futuro della loro azienda per vincolarsi con un accordo ventennale. A differenza di ciò che accadeva per le aziende agricole, le industrie avevano grandi benefici dall’energia che veniva loro ceduta, proprio nei picchi di produzione (in pieno giorno) dato che coincidevano con i picchi di maggiore fabbisogno. Al contrario dei grandi player, strutturati e organizzati con tutte le professionalità necessarie e i capitali a disposizione, il cittadino comune ha impiegato molto tempo, inizialmente per vincere la diffidenza verso una novità che sembrava fin troppo conveniente, poi per organizzarsi e capire come muoversi nella giungla burocratica e, infine, per trovare la sponda delle banche che, agli inizi, grottescamente, richiedevano denaro a garanzia (titoli o depositi vincolati) di pari importo rispetto a quello che avrebbero dovuto finanziare.

Quando tutte le riserve furono sciolte e anche le banche erano pronte a finanziare gli interventi di piccola entità dei privati, l’incentivo era esaurito perché aveva fatto il suo corso!

Sì perché lo scopo di un incentivo è quello di mettere in moto un meccanismo, di dargli l’avvio per poi terminare quando il meccanismo è giunto a regime.

Nel caso del fotovoltaico, quando si è affacciato sul mercato costava 7.500,00 € per ogni Kilowatt installato, mentre oggi costa meno di 2.000,00 €. Quindi si tratta ormai di una tecnologia dai costi accessibili che si ammortizzano in pochi anni solo con l’energia prodotta, senza bisogno di incentivi. Alle latitudini del Sud Italia si raggiunge addirittura quella che viene definita Grid Parity, cioè si produce tanta energia quanta se ne consuma.

Alla domanda iniziale che da il titolo a questo post allora, cosa possiamo rispondere? Ora che non abbiamo più gli incentivi, Il fotovoltaico è ancora conveniente o no?

La risposta è senz’altro che rimane conveniente ma con delle considerazioni fondamentali.

Poiché oggi l’energia immessa in rete viene pagata molto poco, occorre dimensionare l’impianto in modo che la quasi totalità dell’energia prodotta venga utilizzata direttamente, riducendo al minimo quella immessa in rete. Per far questo occorre un’attenta analisi dei fabbisogni energetici durante le ore diurne e, possibilmente, cambiare gli stili di vita in modo da trasferirvi alcuni consumi che sono tipicamente serali. Giusto per fare un esempio, lavatrici e lavastoviglie devono essere programmate perché operino di giorno, invertendo le abitudini che ce le hanno fatte spostare nelle ore notturne, per sfruttare le tariffe agevolate.

Appare evidente come un simile impianto sia particolarmente vantaggioso per le aziende, gli uffici e tutte le altre attività che vedono i maggiori assorbimenti durante il giorno, così come accade per gli impianti di climatizzazione a pompa di calore alimentati elettricamente, e così via.

fotovoltaico energie rinnovabili

Nei prossimi post spiegherò come funziona questa straordinaria tecnologia, parlerò delle tipologie di impianto sul mercato, darò consigli utili per scegliere quella più adatta alle esigenze di ciascuno, parlerò di alcune forme di agevolazione fiscale ancora in essere e delle prospettive di sviluppo di questa tecnologia che, pur essendo stata messa a punto da decenni, ha ancora una lunga strada davanti a sé.

Questo è uno di quei casi in cui possiamo dire che il bello deve ancora venire!

Egidio Raimondi, Green Your Mood!