Hai lavato le mani?

La storia di Ignaz Semmelweis

di Armando Sarti

Lavarsi le mani, insieme ad evitare ogni contatto con gli altri, è la prima raccomandazione, valida per tutti, per limitare la circolazione e il contagio del virus COVID-19.  È una pratica indubbiamente indispensabile se si tiene conto di quante cose si toccano con le mani e di quanto spesso le nostre mani sono portate alla faccia, alla bocca e agli occhi. Quindi laviamo le mani spesso e sempre quando si va a tavola e quando si rientra a casa dopo la spesa. In quest’ultimo caso di nuovo dopo aver sistemato la spesa in frigorifero e nella dispensa.

Il lavaggio delle mani a scopo rituale o religioso è riportato in vari testi antichi, particolarmente della cultura islamica ed ebraica. La necessità, però di lavare le mani a scopo igienico è abbastanza recente; è sufficiente andare indietro di poco più di un secolo.

Ignaz Semmelweis

Prima della seconda parte del XIX secolo questa pratica non esisteva proprio, nemmeno in preparazione di un intervento chirurgico e, comprensibilmente, le infezioni susseguenti a pratiche chirurgiche o a ferite accidentali erano molto frequenti. Molto alta risultava anche l’incidenza della “febbre puerperale”, cioè dell’infezione delle donne subito dopo il parto, se avveniva in ambiente ospedaliero. All’epoca molto spesso i medici passavano dalla sala di dissezione anatomica dei cadaveri, o dal contatto con pazienti infetti, alla sala parto, senza alcuna precauzione.

Nel 1847 un giovane medico ungherese, Ignaz Semmelweis, osservò che anche i medici si infettavano facilmente se si ferivano accidentalmente nel corso di dissezioni di cadaveri o interventi chirurgici effettuati su pazienti già infetti.

Nel corso del suo tirocinio presso la prestigiosa clinica ostetrica di Vienna il giovane medico, ancora in formazione, intuì che proprio le mani dei medici potevano essere il veicolo del “principio infettante”, il miasma come si diceva allora (all’epoca i batteri non erano stati ancora scoperti), nei confronti delle partorienti. Per dimostrare che la sua supposizione potesse essere fondata il Dr. Semmelweiss convinse un gruppo di medici al lavaggio delle mani in una soluzione di acqua clorata prima di accedere alla sala parto. Il risultato fu sorprendente: si osservò una forte riduzione delle infezioni, dal 18% all’1%.

Nonostante la clamorosa evidenza della sperimentazione, la reazione dei medici più qualificati dell’ospedale di Vienna non fu affatto favorevole. Non si poteva accettare che proprio i medici, persone pulite, istruite e rispettabili, che salvano la vita dei pazienti, potessero essere responsabili con le loro mani della morte di tante donne.

La sua idea fu osteggiata fino al punto che Il giovane medico, amareggiato, perse il posto all’ospedale e cadde in una grave forma di depressione. La sua salute andò deteriorandosi sempre più e il geniale scopritore dell’importanza della pulizia delle mani in medicina morì a 47 anni in un’istituzione psichiatrica.

Poco prima della sua morte Louis Pasteur dimostrò l’esistenza dei germi patogeni e presto il lavaggio delle mani diventò una pratica essenziale della pratica chirurgica. All’inizio del XX secolo lavarsi le mani si diffuse come pratica igienica anche al difuori dell’attività medica.

Al giorno d’oggi la pratica è mandatoria negli ospedali e negli ambulatori ed è consigliata sempre, per tutti, per la prevenzione della trasmissione delle infezioni tramite le mani; l’efficacia non è in discussione (1).

Il modo migliore per onorare il Dr Semmelweis, e la sua geniale intuizione e dimostrazione scientifica, è mettere in atto questa pratica regolarmente, seguendo alla lettera le indicazioni costantemente ricordate dalle autorità sanitarie e dalla Protezione Civile. Da questo dipende la possibilità di limitare la diffusione del virus e di salvare la vita di tante persone, particolarmente di quelle più fragili.

Non dobbiamo invece “lavarci le mani”, come fece Pilato, riguardo alla nostra responsabilità individuale per ogni altra utile raccomandazione di prevenzione e accettare senza esitazione le restrizioni necessarie al fine di superare quanto prima è possibile, tutti insieme, la condizione di sofferenza che stiamo vivendo. Troppe persone escono tuttora di casa non per indubbia necessità, ma per noncuranza.

Riferimenti bibliografici:

  1. P. Saunders-Hastings et al. Review. Epidemics 20; (2017) pp 1–20

Armando Sarti, Medico