La Pandemia e l'Evoluzione della Medicina

Com’è nata la ventilazione meccanica e la moderna Terapia Intensiva

di Armando Sarti

Nei tempi che stiamo vivendo della pandemia da Covid-19 tanti ormai conoscono parole come “ventilatori”, “assistenza respiratoria a pressione positiva” e “intubazione tracheale”, cioè alcune fra le tecniche fondamentali della moderna terapia intensiva. Ogni giorno si conta il numero dei ricoveri nei reparti di Rianimazione e Terapia Intensiva, come parametro importante per seguire quanti pazienti hanno contratto l’infezione in modo grave e più in generale l’evoluzione della pandemia.  

La storia della medicina permette di ricordare com’è nato il concetto di terapia intensiva e, in seguito come si sono diffusi i reparti in grado di supportare le funzioni vitali dei malati, quali la respirazione e la circolazione del sangue, nell’attesa che i trattamenti medici e chirurgici concomitanti potessero permettere di guarire questi pazienti.

Nel corso dell’epidemia di poliomielite, alla metà del secolo scorso, Copenaghen si trovò al centro di un’area particolarmente colpita dal virus. Un numero impressionante di pazienti, in buona parte bambini e adolescenti, giungeva in ospedale in condizioni critiche perché l’infezione aveva attaccato la parte del sistema nervoso che collega il cervello al midollo spinale, compromettendo così la capacità di respirare a causa della paralisi muscolare.

All’epoca l’unico trattamento utilizzabile era il “polmone d’acciaio”, una tecnica che creando una pressione negativa all’esterno del torace lo espande facendo così entrare l’aria nei polmoni.

Il trattamento però non risultava molto efficace e comunque le unità disponibili erano molto scarse, mentre nell’Agosto del 1952, all’ospedale Blegdam di Copenhagen, arrivavano tante decine di pazienti con difficoltà respiratoria ogni giorno. Il personale medico e infermieristico, di gran lunga insufficiente per il numero dei ricoveri, si affannava nel prestare soccorso. La mortalità, per questi pazienti sfiorava il 90%.

Era in corso un’evidente sproporzione tra le necessità cliniche dei pazienti e la capacità di risposta sanitaria dell’ospedale, in particolare per i pazienti più gravi, esattamente come è avvenuto in varie città italiane nei giorni passati, e come è tuttora in corso nel mondo a causa del coronavirus.

A una riunione d’emergenza dell’ospedale Blegdam partecipò un anestesista, Bjørn Ibsen. Il giovane dottore danese, da poco rientrato da uno stage a Boston per specializzarsi presso un prestigioso centro medico statunitense, ebbe l’idea che avrebbe rivoluzionato il corso della pratica medica per i malati acuti.

Propose d’invertire il concetto del polmone d’acciaio e di pompare l’aria direttamente nei polmoni dei malati: la ventilazione a pressione positiva. All’epoca questa tecnica, mediante rudimentali apparecchi, era applicata per poco tempo solo durante gli interventi chirurgici più impegnativi.

Ibsen propose di ventilare i pazienti tramite un’incisione praticata nel collo fino alla trachea (tracheostomia) e una cannula che metteva in comunicazione le vie aeree del paziente con un pallone di gomma, compresso a mano e rifornito in continuo di aria e ossigeno.

Ibsen fortunatamente fu autorizzato a mettere in pratica la sua idea con le sue stesse mani e il giorno dopo, il 26 Agosto 1952, una ragazzina di 12 anni fu mantenuta in vita con questa tecnica.

La prima paziente fu così trattata con successo e la tecnica fu applicata subito a tutti i pazienti che non potevano respirare. Il problema era mettere due mani a disposizione per tanti malati e così fu organizzata in brevissimo tempo, in uno spazio dedicato, l’unità di terapia continua di ventilazione manuale, in turni di 6 ore, reclutando oltre ai medici disponibili, tutti gli studenti di medicina e di odontoiatria. In questo modo fu possibile assistere i tanti pazienti che non potevano respirare autonomamente. Gli studenti erano istruiti su quanto e con quale frequenza dovevano comprimere il pallone per portare l’aria nei polmoni dei malati.

La mortalità si ridusse in breve tempo, da quasi il 90% a meno di un terzo dei pazienti assistiti con questa tecnica manuale, in ambienti attrezzati specificamente per questa esigenza.

Era nata così la terapia intensiva, da una brillante e rischiosa idea di un giovane anestesista e dalla pronta risposta di un ospedale che nel suo insieme aveva reagito all’emergenza e riunito le idee e le forze, in stretta collaborazione, per guadagnare il tempo necessario alla risoluzione dell’infezione, assistendo così i pazienti che altrimenti sarebbero morti in breve tempo. Centinaia di pazienti furono salvati.

Fu un’intuizione geniale, che ha rivoluzionato il trattamento dei malati in condizioni critiche e instabili. Un esempio di ingegno e pronta reazione di fronte a una crisi di sistema. Era così possibile mantenere in vita i pazienti, del tutto coscienti, che non potevano respirare, in modo sicuro e prolungato nel tempo.

Proprio a Copenaghen, pochi mesi dopo, il Dr. Ibsen creò il primo reparto specializzato di Rianimazione e Terapia Intensiva. Oggi questi reparti, che necessitano di medici e infermieri formati in modo specifico e di una grande dotazione tecnologica, sono diffusi come sappiamo in tutto il mondo. Da una pratica utilizzata in sala operatoria la ventilazione meccanica è attualmente un trattamento essenziale ampiamente utilizzato nelle Terapie Intensive.

Le mani dei medici e studenti di Copenhagen furono rapidamente sostituite da macchine specificamente costruite per la ventilazione artificiale. Nel tempo sono state realizzate attrezzature per la ventilazione meccanica via via più sofisticate e adatte a supportare la respirazione in modo raffinato, seguendo le esigenze di ogni singolo malato che necessita di ventilazione assistita. I moderni ventilatori e i monitor delle funzioni vitali permettono di avvertire e registrare l’attività spontanea del paziente e di supportare l’immissione di aria e ossigeno nei polmoni con tante diverse modalità secondo le esigenze di ogni singolo malato.

Il 26 Agosto del 1952, il ‘Bjørn Ibsen day’, rappresenta così una pietra miliare della storia della medicina, che acquista una drammatica attualità proprio adesso, con il mondo intero che lotta con i letti disponibili di terapia intensiva per ventilare i polmoni dei pazienti più gravi.

Dalla storia al presente. Da questa pandemia dobbiamo necessariamente ricavare qualcosa di positivo per il futuro. I posti letto nelle Terapie Intensive e Subintensive, adeguatamente supportati da strumentazioni tecnologiche e personale formato, non devono essere ridotti per le ristrettezze economiche, ma al contrario incrementati, per far fronte ad esigenze improvvise. Un evento inaspettato, peraltro prevedibile dai veri esperti, non deve più trovarci così impreparati.

Più in generale riconosciamo che i servizi sanitari nazionali sono fondamentali per rispondere a pandemie come quella in atto, che, è bene ricordare, sono sempre possibili, possono ripetersi e sono più probabili nel mondo attuale, sovraffollato e facilmente collegato in poche ore da un capo all’altro.
Per sostenere il servizio sanitario nazionale non basta ringraziare pubblicamente e chiamare “eroi” gli operatori sanitari. C’è il rischio che finita l’emergenza tutto torni come prima. Si tratta di fare delle scelte, come individui e come paese, nell’allocazione delle risorse.

Non nascondiamoci dietro a un dito. Per noi Italiani in particolare vuol dire in primo luogo pagare le tasse e poi pretendere dalla politica un utilizzo appropriato del denaro pubblico. Tutti devono contribuire secondo le proprie possibilità, come dice la Costituzione della Repubblica.

Se niente cambia, con l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dei costi della medicina, non sarà più possibile garantire ad ogni persona, in un futuro vicino, le migliori possibilità di guarigione.

È anche indispensabile finanziare adeguatamente i necessari interventi di prevenzione, con i sani stili di vita, una maggiore attenzione al ripristino della qualità dell’ambiente e una corretta alimentazione. Campagne di promozione della salute, riducendo i costi dell’assistenza sanitaria e riabilitativa per le malattie croniche, permetterebbero di salvare tante vite umane e avrebbero anche una ricaduta sociale importante per il contenimento della spesa sanitaria.

Armando Sarti, Medico

già direttore, Dipartimento d’Emergenza e Terapia Intensiva Azienda Sanitaria di Firenze